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Biden ha bisogno di Draghi (e viceversa). Analisi di Bindi

Di Federiga Bindi

I pranzi, le conferenze stampa, la comunità washingtoniana in subbuglio. Sono tanti gli indicatori che dicono se un viaggio di un premier italiano in America è un successo o no. Mario Draghi va da Joe Biden con una missione (europea) senza precedenti. L’analisi della professoressa Federiga Bindi (Tor Vergata)

Il 14 gennaio 1947, dopo un viaggio durato 58 ore, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi arrivava a Washington DC, il primo viaggio da “quasi amico”. Con il cappello figurativamente in mano e il cappotto consunto De Gasperi aveva un disperato bisogno di aiuto finanziario e di beni di consumo primari per sfamare il Paese.

Dal 1947 tutti i presidenti del Consiglio hanno considerato la visita a Washington come un rito di passaggio essenziale. Puntualmente, ogni quattro anni, i partner europei si sgambettano a vicenda per essere i primi ad essere ricevuti dal nuovo eletto, al fine di poter vantare una supposta relazione privilegiata.

Ogni aspetto di una visita bilaterale al massimo livello è coreografato con cura maniacale dagli ospiti americani. Cosa l’amministrazione offre al viaggiatore indica alla cinica comunità washingtoniana l’importanza che viene data allo stesso: essere ospitati a Blair House, la Cena di Stato o quantomeno un pranzo di lavoro. Poi la conferenza stampa: c’è o non c’è? Sono ammesse le domande dei giornalisti? Si tiene nel Giardino delle Rose? Anche la visita di Draghi potrà essere giudicata – al di là delle sempre positive parole di circostanza – dall’eventuale presenza di questi capisaldi della diplomazia americana.

Quando De Gasperi volò in America, l’Italia era in ginocchio. De Gasperi poteva solo chiedere, ed obbedire. Chiese ed ottenne: un assegno da 50 milioni di dollari e 225.000 tonnellate di viveri. In cambio, l’amministrazione americana impose l’uscita delle forze di sinistra dal governo di unità nazionale. L’anno seguente, per le elezioni legislative, la Cia elaborò una nuova definizione di interesse nazionale comprendente minacce derivanti da eventi esteri, quali l’avvento di governi comunisti, tra i rischi per i quali aveva mandato di agire.

Fu quindi organizzata la prima “covert action” mirata a influenzare un evento domestico di un Paese terzo. Rispetto ad Operation Urgent Fury, l’invasione del 1985 della remota isoletta di Granada dopo l’elezione di un governo di sinistra, tutto sommato all’Italia è andata bene.

Fino alla fine della Guerra fredda, gli Stati Uniti hanno generosamente finanziato partiti, movimenti e think tank anti-comunisti – una mossa velocemente copiata dell’Urss a favore della galassia comunista. Oggi i finanziamenti a chi può influenzare l’opinione pubblica – ad esempio alcuni think tank – sono sicuramente meno generosi e vengono pudicamente rubricati sotto la voce public diplomacy.

Finita la Guerra Fredda, hanno iniziato ad arrivare a Washington in pellegrinaggio politici ex comunisti quali Massimo D’Alema o Giorgio Napolitano. Paradossalmente l’influenza (il termine in inglese è moral suasion) che gli Stati Uniti sono riusciti a esercitare sugli ex comunisti è stata assai maggiore rispetto a quella che erano riusciti ad avere sui politici della I Repubblica.

Sigonella e gli scontri sul Medio Oriente sono solo alcuni degli esempi che nella II Repubblica sarebbero impensabili. Non è un caso che il bombardamento della Serbia avvenne con D’Alema alla guida del governo e la partecipazione alla sciagurata guerra di Libia sotto la presidenza di Napolitano, che la impose a un recalcitrante Berlusconi. La guerra di Libia, un disastro dalle proporzioni epiche che il nostro Paese continua a pagare, è particolarmente importante alla luce degli attuali eventi in Ucraina e della visita di Draghi a Washington.

Nonostante gli esiti disastrosi, la guerra libica fu (e tuttora è) considerata dai collaboratori dell’allora presidente Barack Obama il “miglior modello di cooperazione transatlantica”, laddove la definizione di ‘cooperazione modello’ significa che gli americani forniscono le armi e gli europei fanno il lavoro sporco. Soddisfa i produttori di armi, che senza guerre non riescono a rinnovare il magazzino, ed è facilmente vendibile anche al pubblico americano, diventato ormai allergico – dopo 50 anni di guerre inutili – a mandare boots on the ground.

Tra i sostenitori della guerra in Libia quale modello perfetto, vi sono coloro che oggi conducono la politica estera americana. Tra queste c’è l’Under Secretary of State for Political Affairs Victoria Nuland, colei che spiegando all’ambasciatore americano in Ucraina chi doveva andare al governo, spedì gli europei a quel Paese con il famoso “F*** the Europeans”. Sono le stesse persone che ad ogni singola riunione bilaterale organizzata con l’Italia da 20 anni a questa parte hanno sempre chiesto la stessa domanda: “Quando smettete di importare gas dalla Russia?”

Sarà la stessa domanda che Draghi si sentirà ripetere questi giorni, alla quale potrà finalmente rispondere: ci stiamo lavorando. Il fatto che l’Italia dipenda energeticamente dalla Russia, infatti, non è mai stato accettato da Washington e ha sempre costituito una spina nelle relazioni sia con l’Italia che con la Germania. Che poi da un Paese totalitario si passi ad un altro è solo un dettaglio.

Inutile spiegare i legami storici, oltre che economici, che legano da secoli il nostro Paese alla Russia. A differenza dell’Europa – dove la definizione dell’interesse nazionale verte su tre variabili: storia, geografia, economia – la politica estera americana si basa su economia, preferenze del leader e geografia. L’influenza della storia (o meglio della percezione della stessa) nel presente è difficile da capire oltremanica.

Del resto, gli Stati Uniti non hanno ancora fatto i conti con i propri fantasmi del passato, siano essi domestici o di politica estera. Nonostante che le uniche vittorie militari siano state la guerra per l’indipendenza, e le due Guerra Mondiali, prevale una narrativa trionfante (spesso sposata acriticamente anche all’estero) basata sulla cosiddetta “superiorità morale” degli Stati Uniti, troppo spesso usata per giustificare l’esportazione nel mondo della democrazia – vera o presunta – con le buone o le cattive.

Questo sentimento di essere “dalla parte giusta della storia” è stato rafforzato dalla fine della Guerra Fredda o meglio, dall’’aver vinto’ la Guerra Fredda, una terminologia che implica che ci sia anche un perdente, ovverosia la Russia, in quanto erede dell’Urss. La stessa Russia che – nella mente di molti leader Dem – è pure colpevole di aver fatto vincere Trump, poiché dare la colpa ad altri è più facile che fare autocritica.

La II Guerra d’Iraq – quella delle “inconfutabili prove” dell’esistenza di armi chimiche in Iraq – nasce dalla delusione dai falchi della politica estera, tanto repubblicani che democratici, per la decisione di Bush Sr. di non entrare a Bagdad nella I Guerra in Iraq, sebbene gli Stati Uniti – ormai l’unica superpotenza mondiale – credessero di avere un diritto-dovere di intervento globale.

Si tratta chiaramente di un’ottica che non rispecchia l’opinione di larga parte del globo, come i voti (o non voti) alle Nazioni Unite in queste settimane mostrano. Dai primi anni ’90, infatti, il mondo è cambiato. Nuovi attori hanno conquistato o stanno conquistando posti al sole sia a livello globale che regionale. In questo contesto l’Ucraina è solo una sfortunatissima pedina in un gioco più grande di lei. Come vent’anni fa si baciava la pantofola a Karzai e si organizzavano le conferenze dei donatori per l’Afghanistan, oggi tutti ad omaggiare Zelinski e a promettere denari. E dov’è l’Afghanistan oggi?

Nel frattempo, grazie alla monopolizzazione dell’informazione causata dalla guerra in Ucraina, sempre più paesi si stanno muovendo nell’ombra. La Turchia sta rafforzando il suo ruolo in medio oriente, oltre ad aver ripresto a bombardare i poveri curdi. La Cina ha imposto il suo uomo ad Hong-Kong ma la vera domanda è cosa farà con Taiwan – e soprattutto cosa faremo noi se Pechino attaccherà. I rischi che qualcosa sfugga di mano, nel confronto tra Russia e Ucraina e relativi sponsor, così come nel resto del mondo, sono altissimi.

Draghi è uno degli ultimi leader della I Repubblica. Nell’incontrare Biden, uomo dalla grande esperienza in politica estera, oggi però essenzialmente votato alle vicende domestiche, deve assolutamente portare un messaggio di pace e spiegare che il costo ed il rischio per l’Europa e per il mondo sono troppo alti.

Un’afghanizzazione dell’Ucraina, così come un’escalation, avrebbero conseguenze terribili. Nel 2012, al Senato americano si teorizzava che il fallimento dell’Euro avrebbe portato benefici al dollaro. Draghi con il “whatever it takes” salvò l’euro, contribuendo a convincere agli americani che un crollo avrebbe avuto ripercussioni pesantissime anche negli Stati Uniti. È oggi forse l’unico leader politico che può ancora portare l’amministrazione Usa su posizioni di maggiore saggezza, speriamo che lo faccia prima che sia troppo tardi.

 

 

* Federiga Bindi è Professore di Relazioni Internazionali all’Università di Roma Tor Vergata. È autrice, tra gli altri, di Europe and America (Brookings Press, Washington, 2019) e di The Foreign Policy of the European Union (Brookings Press, Washington, 2010, 2012, 2022). Su Twitter @fedbindi

 

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