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Che significa essere conservatori secondo Roger Scruton. Parla Malgieri

Di Elena Caracciolo

È appena stato pubblicato il volume collettaneo, al quale hanno contribuito quattordici autori, “Roger Scruton. Vita, opere e pensiero di un conservatore” (Giubilei Regnani, pp. 328, € 22) curato da Luigi Iannone e Gennaro Malgieri che oltre alla prefazione hanno firmato due saggi. Con Malgieri ci siamo intrattenuti su alcuni degli aspetti del conservatorismo del pensatore britannico, scomparso due anni fa e ritenuto uno dei più influenti filosofi del nostro tempo

Una conversazione davanti a un caffè, tante volte, può prendere la piega di una digressione nel mare della tradizione, specie se a tracciare la rotta del discorso è la filosofia di un conservatore quale Roger Scruton. È Gennaro Malgieri ad introdurmi all’opera del pensatore inglese, avendone per tutta la vita approfondito gli spunti di analisi e le riflessioni teoretiche ed avendo da poco, assieme a Luigi Iannone, curato un volume collettaneo dal titolo “Roger Scruton: vita, opere e pensiero di un conservatore” edito per Historica Edizioni-Giubilei Regnani.

Mi spiega subito come sia imprescindibile la conoscenza di una personalità come Scruton, specie a cavallo di questo movimentato e spinoso attraversamento di una civiltà al tracollo.

Gennaro Malgieri

Scruton ha scandagliato i recessi della decadenza mettendo in evidenza come l’abbandono del diritto naturale ha degradato l’essere umano e l’ambiente fino ad abbandonare ciò che sarebbe indispensabile conservare. Un esempio è dato dall’esame del declino dell’arte con la complicità determinante dei critici che governano cinicamente il mercato inducendo anche gli appassionati avveduti in una distorta qualità del giudizio, così come distorto è l’atteggiamento nei confronti delle forme di urbanesimo contemporaneo e delle architetture che rimandano ad una decadenza dello spirito e sono l’eloquente espressione di una sensibilità quasi barbara, arida, irrigidita dai meccanismi del materialismo pratico che ha fatto dell’utilitarismo il veicolo per imporre la bruttura, mentre la bellezza latita.

Chi sono i responsabili di questo scadimento culturale ed estetico?

Più o meno tutti nella deificazione del “mercatismo”, come ideologia totalizzante, ci si sono buttati a capofitto, indipendentemente dalle ascendenze culturali. I più convinti assertori di tale indirizzo sono coloro che “da sinistra vengono”, come si diceva una volta, avendo constatato che la matrice di fondo della loro azione politica s’è usurata e poi inabissata nelle profondità della storia. Tuttavia una certa coerenza la testimoniano: al materialismo storico hanno sostituito il materialismo pratico, il relativismo culturale, il determinismo dogmatico.

Rimaniamo sul relativismo culturale. Più che testimonianza della presenza degli altri, è diventato proprio un meccanismo di negazione di noi stessi…

Scruton ha inserito nel lessico filosofico il termine oikofobia per dare un senso compiuto e completo al ripudio dell’appartenenza. Da questo punto di vista egli è una figura paragonabile ai protagonisti di alcuni romanzi di Ernst Jünger che antivedono la mortalità come ineluttabile del tempo che ci è dato attraversare.

Cosa significa di preciso oikofobia?

È per Scruton la tendenza che in qualsivoglia conflitto si denigrano i nostri usi, costumi, le nostre istituzioni, la nostra cultura, ripudiando in tal modo la lealtà alla tradizione nazionale e comunitaria, prendendo sempre e comunque le parti di organismi transnazionali supportandone le direttive. Insomma è un abbandono di ciò che si è. La cancel culture è l’espressione ultima e più significativa di questa tremenda abdicazione.

Di contro, c’è il conservatorismo”, che però è quasi una cattiva parola, oggi.

Se soltanto si approfondisse la nozione di conservatorismo, tra le più nobili e feconde della storia politica degli ultimi due secoli, probabilmente non si farebbe di esso un’etichetta denigratoria. A tal fine basterebbe leggere il testo agevole e perfino piacevole dall’esplicito titolo “Essere conservatori” (D’Ettoris editore) di Roger Scruton, per rendersi conto dell’essenza del conservatorismo. “Il conservatorismo che io professo afferma che noi, in quanto collettività, abbiamo ereditato delle cose buone e dobbiamo sforzarci di conservarle”, dice Scruton. Quali sono tali cose? La Tradizione, la concezione organica della società, la ricostruzione di una comunità fondata su valori non negoziabili, la difesa delle specificità e delle differenze contro l’indifferentismo ed il relativismo culturale, la restaurazione della concezione della bellezza a fronte di una tecnologia invasiva e totalitaria. L’indole conservatrice, sostiene, “è una proprietà acquisita delle società umane ovunque si trovino”. Disperderla, come sta avvenendo, è un crimine contro noi stessi e contro quella civiltà millenaria che si richiama all’esperienza europea latu sensu, agli usi ed ai costumi che costituiscono gli elementi di una identità comunitaria. Conservare è interpretare, insomma, la nazione come sostanza viva di aggregati umani eredi di tradizioni, storie, visioni dimoranti entro territori definiti e legati da relazioni regolamentate da un principio di legalità condiviso.

Principio che, tuttavia, pare non esistere o comunque non essere condiviso dal basso.

Le organizzazioni internazionali che costituiscono, nel loro insieme, il cosiddetto “governo mondiale” fondato sulla delega di consistenti quote di sovranità ad una anonima burocrazia, abusano del proprio potere e, secondo Scruton, minacciano seriamente l’indipendenza dei popoli.

Propone a tal riguardo un superamento dellUe?

Scruton è stato uno dei sostenitori del superamento dell’Unione europea, ma anche un apologeta dello Stato-nazione a cui ha dedicato pagine intense in molte opere ed in particolare sintetizzate nel volumetto-intervista che anni fa realizzò con lui Luigi Iannone, “Il suicidio dell’Occidente”, nel quale si legge: “La nazione è la soluzione ai conflitti religiosi e non la loro causa. Ma ciò richiede una particolare cultura; una cultura della legalità, della sovranità e dell’ospitalità territoriale”. In questo spirito va letto “Il bisogno di nazione” (Le Lettere), in cui Scruton parla di riscoperta dell’idea di nazione in chiave democratica e come elemento fondante il governo del popolo costituzionalmente riconosciuto da coloro che vivono su uno stesso territorio e nutrono un attaccamento al sentimento dell’appartenenza, al di là dei fattori etnico-religiosi che contribuiscono a falsare la nozione stessa di nazionalità, esaltando piuttosto il tribalismo e l’intolleranza.

Scruton provò in qualche modo a dare una nuova direzione a livello comunitario?

Nasceva per questo il “Manifesto per l’Europa” che il conformismo continentale ha quasi “silenziato”. L’appello venne firmato, tra gli altri, da Rémi Brague, Robert Spaemann, Chantal Delsol, Ryszard Legutko. Presentato a Parigi, proponeva il recupero della civiltà europea contro le “superstizioni del progresso, del mercato unificato e l’intrattenimento dozzinale”: “Un’Europa in cui possiamo credere” è il titolo, e tra i firmatari non figura nessun italiano.

Perché? lItalia può prescindere dallidea di Stato-Nazione?

No, assolutamente. Storicamente il nostro è stato il Paese che a questa nozione ha dato l’impulso maggiore negli ultimi due secoli. È la conquista dello Stato da parte della nazione, come scriveva Hanna Arendt. La seconda si identifica nel primo, insomma, che giuridicamente la tutela e la organizza tenendo presenti le sue caratteristiche socio-culturali. Oggi in Italia il concetto si è affievolito. La nazione è un agglomerato di individualismi e personalismi perniciosi, lo Stato un’aggregazione di istituzioni litigiose. Il fatto che nessuno abbia firmato il Manifesto a cui lei si riferisce è la dimostrazione di una nullificazione progressiva dell’idea di Stato-nazione, come di Stato burocratico-amministrativi, come di Stato-comunità. Una regressione insopportabile. Bisognerebbe ricostruire la nazione e ridare senso allo Stato nel contesto di una sovranità europea possibilmente confederale.

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