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Buon viaggio a De Mita, l’ultimo testimone

Buon viaggio a Ciriaco De Mita, tra gli ultimi grandi testimoni della Dc. Dalle cattedre della Cattolica agli scranni del governo, cronistoria di un super-democristiano. Il ricordo di Mario Caligiuri, presidente della Società italiana di intelligence

La scomparsa di Ciriaco De Mita puó essere l’occasione per riflettere sul sistema politico italiano. Il segretario della Dc era il testimone di un’Italia che non c’è più, quella della guerra fredda, dove la cultura era necessaria per fare politica.

De Mita inizia a occuparsene all’Università “Cattolica” di Milano, dove è tra i fondatori della corrente democristiana della Base”. Animatore è un ex partigiano, Giovanni “Albertino” Marcora, al quale quando il 5 maggio del 1982 un giornalista della Rai domanda: “Perché lei, lombardo, sostiene come segretario della Dc il campano Ciriaco De Mita?”, risponde: “Perché l’intelligenza non ha una connotazione geografica”.

Gli anni Ottanta si aprono con il terremoto dell’Irpinia che causa quasi 3 mila morti e 9 mila feriti. Lo Stato stanzierà oltre 60 mila miliardi di lire nella ricostruzione, probabilmente l’investimento maggiore mai compiuto nella storia d’Italia. Nel 1989 viene costituita una commissione d’inchiesta sull’uso dei fondi, presieduta da Oscar Luigi Scalfaro.

Ed è proprio negli anni Ottanta che si afferma nella Dc l’egemonia dei campani. Non solo De Mita, ma emergono anche l’andreottiano Paolo Cirino Pomicino e anche la corrente del Golfo che si identifica prevalentemente con Antonio Gava ed Enzo Scotti. Quest’ultimo tenta di opporsi alla rielezione di De Mita a capo del partito nel 1984 e riesce ad ottenere il 37% dei voti, partendo da una percentuale di gran lunga inferiore.

Con la conferma dei congressi nazionali del 1982, 1984 e 1986, per quasi sette anni consecutivi De Mita rimane segretario della DC, detenendo il record di durata. Inoltre è stato per quindici mesi tra il 1988 e il 1989 l’ultimo presidente del consiglio meridionale eletto dai cittadini. Appena pochi giorni dal suo insediamento viene ucciso dalle Brigate Rosse il professor Roberto Ruffilli, ascoltato consigliere sulle riforme istituzionali.

La sua idea della poltica era alta, avanzata, poiché si rendeva conto che i problemi del Paese richiedevano un’ampia convergenza politica. Tanto che già negli anni Cinquanta ipotizzava il dialogo con il Partito Comunista. Dopo l’esperienza del compromesso storico peró ritiene che l’alleanza strategica – anche se spesso conflittuale – con il Psi di Craxi fosse la strada da seguire.

Consapevole dell’importanza del passaggio fondamentale dell’elezione del Capo dello Stato, che nel 1964 lo vide clamorosamente dissentire dalle indicazioni della Dc, nel 1985 riesce a fare eleggere alla prima votazione Francesco Cossiga. Tre anni dopo diventa capo del governo, continuando a guidare contemporaneamente anche il partito.

Nell’arco di cinque mesi viene peró sostituito prima da segretario e poi da premier: la DC, per sua natura, come avevano sperimentato prima di lui De Gasperi e Fanfani, non sopporta leader forti. Nel 1990 fa dimettere i ministri della sua corrente presenti nel VI governo Andreotti (Fracanzani, Mannino, Martinazzoli, Mattarella e Misasi ) per dissentire sulla legge Mammì che di fatto apriva alle televisioni commerciali di Berlusconi. La sua motivazione era che non si poteva concentrare una parte consistente dei mezzi di informazione su una persona sola.

La politica era il suo tarlo e il suo orizzonte e continuó a farla anche nella cosidetta seconda Repubblica, ma non è più il suo mondo. Resta sempre centrista ma si colloca di volta in volta in campi diversi, avendo compreso l’omogeneità sostanziale del sistema.

Nel 2017 lo invitai all’Università della Calabria per un convegno su “Aldo Moro e l’intelligence”. Le sue prime parole furono: “Gli assassini di Moro sono rei confessi in tribunale”. Il suo intervento è contenuto nell’omonimo volume edito da Rubbettino e rappresenta un esempio di straordinaria lucidità politica.

Nello stesso anno a Soveria Mannelli inauguró in agosto la sezione “Democrazia Cristiana” nella biblioteca “Michele Caligiuri”. Per l’occasione, da tutta la Calabria arrivarono amministratori, ex iscritti e gente comune ad ascoltarlo. Un pomeriggio immortalato da Radio Radicale.

Tornó a Soveria due anni dopo in un incontro ancora più affollato del precedente. Non volle restare a cena e quando lo accompagnai alla macchina l’ultima cosa che mi disse fu: “Salutami tua madre”, per ringraziarla di come lo aveva accolto.

Fino alla fine ha creduto in una politica che guardava negli occhi e che si preoccupava delle persone come lui l’aveva sempre concepita e praticata, soprattutto nella seconda metà del Novecento. Convinzione che lo aveva portato a candidarsi nel 2014, riconfermato nel 2019, a Sindaco di Nusco, la sua leggendaria (per i democristiani degli anni Ottanta) città natale.

Ma si muoveva in un altro mondo. Le sue sempre valide categorie culturali, facevano fatica a confrontarsi con il consenso che deriva dagli algoritmi, instagram e TikTok. Infatti, il sistema politico che è succeduto a quella che Pietro Scoppola definiva “La repubblica dei partiti”, si è progressivamente irrigidito su sè stesso, individuando una buona parte degli eletti già prima del voto, attraverso il meccanismo delle liste bloccate che riducono la democrazia ai minimi termini delle procedure elettorali.

Procedure che nessuno intende modificare. Non a caso, la legge elettorale “non è una priorità”, ha affermato qualche giorno fa un leader politico oggi di primaria grandezza. Della politica praticata da De Mita fatta di pensiero, visione culturale ed esercizio del potere, c’è solo l’ultima caratteristica.

Concludo prendendo a prestito le parole di Herman Melville in Moby Dick, non a caso la Balena Bianca: “Dov’è l’ultimo porto, donde non salperemo mai più?”. Buon viaggio allora a Ciriaco De Mita, politico del Sud che ci stupiva ancora raccontandoci l’importanza delle radici e del pensiero. Perché per lui la Dc è stata come un diamante: per sempre.


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