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Elogio della grazia e degli chef

L’arresto di un latitante mafioso, Antonio Cuozzo Nasti, reduce da una seconda vita da chef all’estero durata otto anni, ci fa riflettere su quel fine rieducativo della pena e della giustizia italiana che per troppo tempo è rimasto sulla carta. La riflessione di Dario Quintavalle, già Dirigente Amministrativo del Tribunale di Sorveglianza di Roma

Quello dello chef è ormai un lavoro prestigioso e ambìto: non un semplice cuoco, ma un manager che dirige e indirizza un gruppo. Un lavoro niente affatto facile che la televisione ci ha fatto conoscere e apprezzare, sia pure con trasmissioni abbastanza ripetitive, quasi ansiogene, e con personaggi che oscillano dal gigione al sadico patologico.

Nondimeno, ormai la cucina ha fatto il salto di qualità, da attività artigianale, secondo regole consuetudinarie tramandate da generazioni, ad ‘arte’ sostenuta da autentica creazione e progettualità. Qualcosa che richiede studio, un pensiero, ed anche una notevole attività organizzativa ed imprenditoriale.

Le considerazioni che precedono mi vengono in mente, incongruamente, alla lettura di questa notizia: l’arresto in Francia di un latitante, tale Antonio Cuozzo Nasti, 56enne di Giugliano in Campania, che in otto anni di fuga era diventato un famoso chef responsabile della cucina di un rinomato albergo di lusso sito a Saint-Raphaël, località tra Cannes e Saint-Tropez.

La sua abilità ai fornelli era stata particolarmente apprezzata dal direttore dell’hotel, che gli aveva affidato la direzione del ristorante “Alberto”, rinomato per la cucina italiana. La sua specialità era il polpo alla luciana.

Sono riuscito a rintracciarne poche informazioni: l’uomo, considerato contiguo al clan “Mallardo”, parte dell’“Alleanza di Secondigliano”, era stato condannato ad una pena di 16 anni di reclusione per i reati di rapina, ricettazione e porto illegale di armi, e si era reso irreperibile dal 2014.

Non posso che congratularmi con le nostre forze dell’ordine, la polizia francese, e i meccanismi di cooperazione internazionale europea. Credo che la determinazione nella caccia ai latitanti sia un fattore non secondario nella deterrenza al crimine. Guai se ci fossero santuari dove i criminali possano rifugiarsi. Anzi, ce ne sono già troppi: paradisi fiscali, stati che offrono rifugio ai terroristi (la stessa Francia con i nostri è stata indulgente fino a non molto tempo fa).

Tuttavia, mi colpisce una frase che i giornali ripetono: “l’uomo era riuscito a rifarsi una vita”. È un banale luogo comune: di certo il personaggio era riuscito a sfuggire alle conseguenze di una senz’altro meritata condanna. Ma è davvero possibile rifarsi una vita? Vale a dire, compiere una netta rottura col passato, rinascere, e per di più farlo col tesoro delle esperienze negative accumulate?

Le cronache sono piuttosto oscure sulla fuga del Cuozzo Nasti (così vuole la prassi che si tratti il delinquente, senza il beneficio di un appellativo qualsiasi, solo ‘il’): ha goduto di appoggi? Ha mantenuto contatti con il suo ambiente passato? La sua attività di chef era la copertura di altri affari loschi, il tramite di altre latitanze? Non lo so, ma immagino che liberarsi dalla tutela di un clan camorristico sia più difficile che sfuggire alla giustizia, e che pertanto ciò gli meriti un supplemento di diffidenza. L’unica cosa certa è che cucinava davvero bene.

Però – se questi otto anni di latitanza fossero stati dedicati solo all’onesto lavoro, se l’uomo avesse  rotto ogni legame con la criminalità, se insomma davvero si fosse “rifatto una vita” – il caso meriterebbe un po’ di considerazione e riflessione.

La Costituzione italiana parla del fenomeno criminale all’art. 27. Il comma 1 dice che “La responsabilità penale è personale”. Ciò perché si suppone che una persona capace di autodeterminarsi è la sola responsabile delle proprie azioni. È però un dato di fatto che certe fasce di popolazione – quelle che provengono da contesti geografici e sociali di emarginazione e povertà – contribuiscono più di altre alla delinquenza. Di qui un quesito: se uno è capace di diventare di diventare un rinomato chef in Costa Azzurra, perché a Giugliano si riduce a fare rapine per la camorra?

Il comma 3 stabilisce che “Le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato”. ‘Tendono’ infatti, ma raramente riescono. Perché non è chiaro in cosa consista questa “rieducazione”. E perché difficilmente la compagnia di altri criminali ispira al meglio persone che tra i delinquenti ci sono cresciuti.

Oggi parliamo molto di giustizia, ma è soprattutto carcere che si domanda. Incapaci di affrontare le autentiche bombe sociali che covano nelle periferie, accolliamo questo disagio al sistema penitenziario, affidandogli il compito impossibile di riuscire là dove la famiglia, la scuola, la società hanno fallito. Vogliamo linee nette e rassicuranti. Quindi ghetti come risposta ad altri ghetti.

Ho conosciuto il mondo del carcere, in un’altra vita lavorativa. Sono testimonio dell’abnegazione,  del senso di umanità, delle oneste e buone intenzioni di chi vi opera. Non dubito che nella maggior parte dei casi sia un istituto indispensabile alla vita civile.

Ma occorre riconoscere che lo chef fuggitivo aveva imparato un mestiere, cambiato paese, e raggiunto una posizione che certamente né la sua origine sociale, né la carcerazione gli avrebbero procurato. Quale sarebbe la giusta risposta nel caso – non mi faccio illusioni, improbabile – che questo percorso di riabilitazione ed emenda l’antico camorrista lo avesse già compiuto da sé?

Scriveva Camus:  “Tutti Savonarola, le dico… credono solo nel peccato, mai nella grazia”; e poi avvertiva  che “Nel clamore in cui viviamo, … la giustizia non basta. La lunga rivendicazione della giustizia esaurisce l’amore che pure l’ha fatta nascere” e dunque occorre “evitare che la giustizia diventi coriacea, bel frutto arancione che contiene solo una polpa amara e secca”.

Ecco, penso che occorre credere nella Giustizia, ma anche nella Grazia. Nella Costituzione è prevista anche quella. E coltivo la speranza che qualcuno l’abbia meritata.



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