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Le Fate Ignoranti e il segreto della vitalità

La sfida dell’esistenza contemporanea si vince superando i vecchi (ma ancora potenti) schemi: connessione affettiva e fluidità possono trovare la loro “terrazza”. L’analisi di Chiara Buoncristiani, giornalista e psicoterapeuta

Era il 2001 ed eravamo ancora agli albori del nuovo millennio quando Ferzan Ozpetek raggiungeva il successo con la storia di un gruppo di amici, totalmente fuori dagli schemi. Le loro relazioni, condivise durante lunghi pranzi domenicali su una terrazza, avevano i colori del cielo romano e il Gazometro sullo sfondo. Che quella storia avesse il potere dirompente di sintonizzarsi su bisogni molto profondi, diffusi e contemporanei, lo dimostra il fatto che tanti abbiano continuato di sognarne le immagini. Fino al punto, come è capitato grazie alla scommessa produttiva della piattaforma Disney, da immaginare per quella storia una serie tv in otto episodi. Temi principali: l’amicizia, l’amore, il tradimento, la sessualità in qualunque forma si esprima.

Del film di allora la serie è un’amplificazione caleidoscopica, che la regia calda e la sceneggiatura “circolare” rendono ad alto contenuto affettivo: è il clima psichico delle Fate ignoranti a costituirne la chiave di volta. Dove l’atmosfera sensoriale e la fotografia contano tanto quanto le battute e la sceneggiatura.

Un po’ come nelle fan-fiction, dove gli spettatori si fanno autori pur di far proseguire l’incanto di protagonisti da cui non vogliono separarsi, la serie delle Fate sviluppa i personaggi del film: prima di tutto quella moglie e quell’amante maschio, legati allo stesso uomo. Lei è Antonia (nella serie Cristiana Capotondi), lui è Michele (Eduardo Scarpetta). La figura che tende il filo della relazione tra Antonia e Michele è Massimo (Luca Argentero), marito di Antonia e amante di Michele. I loro destini si intrecciano quando Massimo muore per un incidente stradale.
Dal loro imprevedibile incontro per una morte comincia una rinascita. Massimo ha infatti vissuto in due mondi paralleli e apparentemente lontanissimi e non integrabili. Da una parte la villa algida e perfetta, in riva alle lucide acque di un lago, che condivide con la moglie. Dall’altra la terrazza assolata e sgangherata di un condominio sull’Ostiense, dove abita l’amante. La terrazza ospita una famiglia allargata di amici eccentrici e imprevedibili. Ci sono coppie lesbiche, gay e trionfa la diversità di ogni genere e razza.

Alla morte di Massimo, Antonia entra nel mondo segreto del marito, che riguarda non solo l’amante, ma tutti gli amici di quest’ultimo. È a partire dalla scoperta traumatica di questo tradimento, che Antonia scopre livelli di intimità con se stessa e con gli altri che fino ad allora non si era concessa di esplorare. Nel lutto condiviso per la scomparsa dell’uomo che entrambi amavano, Michele a Antonia riscoprono nuove possibilità vitali.

C’era una volta, raccontano le Fate, un luogo dove ciascuno poteva essere semplicemente quello che è, con le proprie caotiche passioni e la propria unicità. Un rifugio protetto, dove sia la gioia sia il dolore più indicibile può essere espresso, accettato ed elaborato. Non è un caso che questo posto accolga identità sessuali diverse, gay, lesbiche, bisessuali. Ma il punto non è (soltanto) farne un manifesto di libertà LGBTQ+, quanto sottolineare la potenza dinamica che scaturisce dal sentirsi riconosciuti. La serie funziona perché è come se ci mostrasse la ricetta per tenere viva la fiamma vitale. Con lo scorrere delle puntate ci affezioniamo a tutti i personaggi, al modo di starsi accanto l’un l’altro, senza mai condannare le reciproche vulnerabilità. E così tutti ci riconosciamo in ciascuno di loro. Impariamo con loro che avere una posizione “dislocata” rispetto alle categorie tradizionali può essere una risorsa, forse l’unica quando si tratta di integrare gli aspetti più complessi e contraddittori della nostra esistenza. È questa la formula magica delle Fate messa in scena dalla serie, un luogo dove la storia di ognuno può trovare un significato.



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