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Vi racconto il fuoco greco, l’arma vincente dell’Impero Bizantino

Di Domenico Vecchiarino

Il “fuoco greco”, chiamato anche fuoco marino, è stata la più famosa arma utilizzata durante gran parte della storia dell’impero, che le garantì clamorose vittorie sia su terra che per mare a Costantinopoli

L’Impero Bizantino è un caso unico nella storia che rappresenta mille anni di dominio incontrastato su un impero vastissimo e multietnico. Dal 395 dc, anno di divisone dell’Impero Romano, fino quasi alla sua caduta nel 1453 per mano di Maometto II, Costantinopoli riuscì a reggere l’onda d’urto delle invasioni barbariche, degli Slavi e degli Arabi che nel corso della sua storia hanno cercato di invadere i suoi confini.

LA STRATEGIA

Il successo storico dell’Impero romano d’Oriente è da ascrivere ad una serie di fattori: in primis una brillante strategia politica e militare efficacissima, combinata ad un potente esercito, e al costante utilizzo della diplomazia e dell’intelligence. In particolare, Costantinopoli, grazie questi due ultimi elementi, riuscì a tenere sotto scacco le forze nemiche raccogliendo dettagliati dossier e riuscendo a ottenere vantaggiose concessioni a tutti i tavoli di trattativa. Sul fronte militare, cercò di preservare la pace il più a lungo possibile mantenendo alta la tensione e comportandosi come se la guerra fosse sempre imminente, ma scendendo in battaglia solo quando aveva buone possibilità di vittoria. Nella politica interna, privilegiò l’integrazione e l’assorbimento di tutte le sue genti per sfruttare il patrimonio di culture, tecnologie e conoscenze che ogni popolo assoggettato portava nell’Impero.

IL FUOCO GRECO

Ma non solo strategia, intelligence ed esercito, anche gli armamenti furono elementi importanti della potenza di Costantinopoli. Tra questi il cosiddetto “fuoco greco”, chiamato anche fuoco marino, è stata la più famosa arma utilizzata durante gran parte della storia dell’impero bizantino, che le garantì clamorose vittorie sia su terra che per mare.

IL PRIMO ASSEDIO DI COSTANTINOPOLI

Il fuoco greco si rivelò fondamentale nella seconda metà del VII secolo quando gli arabi iniziarono l’espansione nel Mediterraneo conquistando la Sicilia, Tarso, grandi zone del Nord Africa, l’isola di Rodi, dirigendo le loro navi verso Costantinopoli, assediando la città per quattro lunghi anni. Fu proprio il fuoco greco nel 674 a salvare i bizantini perché questi, grazie a questa temibile arma, andarono incontro la flotta araba letteralmente sputando fuoco dalle navi riuscendo così a mettere i nemici in rotta terrorizzati dalle fiamme.

UN SEGRETO DI STATO

Il napalm dell’antichità, come è stato definito il fuoco greco, era un liquido altamente infiammabile composto da ingredienti segreti e utilizzato in bombe incendiarie che venivano catapultate, oppure spruzzato in modo da lanciare fiamme contro navi e fortificazioni nemiche. L’imperatore Romano II ne conosceva il valore e dichiarò che tre cose non dovevano assolutamente finire in mani straniere: le insegne imperiali bizantine, qualsiasi principessa reale e il fuoco greco. Come si è scoperto, i primi due sono stati, a volte, concessi a governanti stranieri, ma mai il terzo. Qualche secolo dopo il primo utilizzo in battaglia del fuoco greco, l’imperatore Costantino VII, nella sua opera De Administrando Imperio, avvertì i suoi eredi di non rivelare mai il segreto di quest’arma perché “è stato mostrato e rivelato da un angelo al grande e santo primo imperatore cristiano, Costantino”.

L’INVENTORE

Secondo il monaco e storico greco Teofane il Confessore, l’inventore dell’arma più letale dell’Impero Romano d’Oriente fu Callinico di Eliopoli (Kallinikos, latinizzato in Callinicus), un architetto e artificiere, che fuggì a Costantinopoli dalla Siria controllata dagli arabi nel 668 d.C. Gli ingredienti del fuoco greco erano considerati segreti dallo stato, conosciuti solo dall’imperatore bizantino, i più alti gradi dell’esercito e dalla famiglia di Callinico, che lo produceva, e dai suoi discendenti, che ne ebbero il monopolio della produzione. Grazie a questi accorgimenti la formula segreta rimase nelle sole mani bizantine per oltre sette secoli e ancora oggi non se ne conosce la formula esatta.

LA FORMULA SEGRETA

Si ritiene comunque che la miscela fosse a base di petrolio o nafta con molta probabilità provenienti dai territori del Mar Nero, nell’area nella città di Tmutarakan’, nell’attuale territorio di Krasnodar della Federazione Russa e nella penisola della Crimea, che presentavano dei territori ideali per l’estrazione di petrolio senza particolari sforzi. Altri componenti erano calce viva, zolfo, resina e nitrato di potassio.

L’USO NELLE BATTAGLIE NAVALI

Come detto, il fuoco greco fu usato per la prima volta negli scontri navali e solitamente era imbarcato sul dromone, la tipica nave bizantina a vela, leggera e veloce che poteva anche essere azionata a remi, e che aveva due castelli, uno a poppa, e uno a prua; su quest’ultimo era collocata l’arma per lanciare il “fuoco greco”: il “sifonario”[1].

IL SIFONARIO

Questo liquido infiammabile veniva prima scaldato in un braciere di rame sulla nave, versato in otri di pelle o terracotta e poi veniva lanciato attraverso il sifonario, in pratica un vero e proprio lanciafiamme ante litteram, realizzato con tubi di bronzo e foderato di cuoio, che includeva una pompa a sifone e un ugello girevole, terminanti con una testa di drago o di leone, dai quali, grazie ad un pistone, fuoriusciva il fuoco.  Il sistema doveva essere molto complicato da utilizzare perché nell’anno 814 i Bulgari riuscirono a catturare diversi sifonari e una certa quantità di liquido incendiario ma non seppero utilizzarli per via della complessità del sistema.  Il Madrid Skylitzes, noto anche come Codex Skylitzes Matritensis, manoscritto illustrato del XII secolo d.C. che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze, contiene un’illustrazione di una delle navi dell’imperatore Michele II che sparavano il fuoco greco da un lungo tubo verso una nave del generale ribelle Tommaso lo Slavo durante l’assedio di Costantinopoli da parte di quest’ultimo nell’821-822 d.C.

GLI EFFETTI DEVASTANTI

Nelle cronache del tempo viene riportato proprio l’effetto drammatico dell’arma: secondo lo storico bizantino del VI secolo d.C. Teofane, “facevano tremare di terrore i nemici”. Quasi ogni cosa a bordo di una nave nemica che entrava in contatto con il liquido veniva immediatamente data alle fiamme: sartiame, vele, uomini e persino lo scafo delle navi, essendo realizzate in legno coi comenti dello scafo impermeabilizzati tramite calafataggio, tutti materiali altamente infiammabili. Di più, la particolarità del fuoco greco, che ne ha determinato l’enorme successo, era il fatto che questa miscela provocava incendi che non potevano essere neutralizzati con la semplice acqua. Anzi, per via della presenza della calce viva, questa non faceva che alimentare ulteriormente l’incendio! Spegnere questo liquido era poi difficilissimo perché solo i bizantini, che ne conoscevano gli elementi, erano in grado di estinguerlo; l’unico modo per spegnere il fuoco era quello di usare sabbia, aceto o urina.

L’UTILIZZO NELLE BATTAGLIE TERRESTRI

Ma il fuoco greco fu utilizzato anche nelle battaglie terrestri. Nel 718 d.C., sempre durante un nuovo assedio di Costantinopoli, i bizantini, infatti, adattarono il fuoco greco anche per le battaglie campali: idearono dei sifonari portatili ideati in modo che le fiamme potessero essere sparate su o dalle fortificazioni. Grazie a questa nuova tecnica i bizantini devastarono il campo e le attrezzature militari arabe e la flotta bizantina annientò completamente l’intera flotta del Califfato, portando alla vittoria gli assediati, immobilizzando la spinta espansionistica musulmana in occidente per sette secoli.  Un’altra innovazione consisté nel riempire alcune granate di terracotta con il liquido, o immergere delle balle di stoffa, e catapultarle sulle truppe nemiche.  Il suo uso più devastante rimase, tuttavia, nella guerra navale, dove fu utilizzato anche su alcune navi senza equipaggio che venivano lanciate con il vento a favore nel cuore della flotta nemica; una tattica confermata nell’assedio di Costantinopoli del 1204 d.C. Il fuoco greco fu poi ulteriormente adattato all’utilizzo anche con dei tubicini simili a cerbottane.

ARMA DECISIVA IN MOLTE GUERRE

Nel corso della storia dell’Impero Bizantino il fuoco greco fu utilizzato più volte e in molte occasioni si rivelò determinate.  In particolare, il fuoco greco fu usato con effetti devastanti nella guerra navale da Romano I Lecapeno nel 941 d.C. che con sole 15 navi riuscì a liberare Costantinopoli dal blocco navale da parte della flotta dei Rus’, che comprendeva svariate centinaia di navi. L’imperatore Giovanni I Zimisce usò il fuoco greco con buoni risultati sulla terraferma nel 972 d.C. quando si fece strada fino a Preslav, la capitale del Primo Impero bulgaro che i russi avevano conquistato. Nel 988-9 d.C. Basilio II combinò in modo devastante il fuoco greco con la Guardia Varangiana, la sua magnifica forza composta dai vichinghi, per sconfiggere il generale ribelle Barda Foca.

LA MANCANZA DI PETROLIO

Per ragioni sconosciute l’utilizzo del fuoco greco non è stato più menzionato nelle cronache e nei documenti dal 1202 in poi, anno della Quarta Crociata. La fine dell’utilizzo del fuoco greco, un’arma così strategica per Costantinopoli, ci lascia suppore che i bizantini non ebbero più l’accesso ad alcune risorse fondamentali per la realizzazione del fuoco. Probabilmente quello che venne meno a Costantinopoli fu il petrolio o la nafta provenienti dal Mar Nero.

LA RICOSTRUZIONE

Nel 2006 lo storico John Haldon dell’Università di Princeton ha costruito una modello del sifonario e, grazie a una serie di studi chimici, ha riprodotto anche il fuoco greco. Questo esperimento è stato un successo perché grazie a queste ricostruzioni lo storico è riuscito a “sparare” le fiamme del fuoco greco fino a 15 metri di distanza, che erano in grado di incenerire qualsiasi cosa sul loro cammino in pochi secondi.

[1] Il termine sifonario è utilizzato da Andrea Frediani, crf.  Le grandi battaglie del Medioevo, Newton Compton Editori, 2017, pp.404-405

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