Dario Cristiani, senior fellow del German Marshall Fund, spiega gli effetti che potrebbe avere un’azione più incisiva dell’Italia e dell’Europa in Libia, tra cui rafforzare ulteriormente il “momento transatlantico” che la guerra in Ucraina ha creato. In un’ottica di burden sharing che gli americani ormai danno per scontato
La visita di Mario Draghi a Washington DC, la prima di un leader occidentale dall’inizio della guerra di aggressione russa in Ucraina il 24 Febbraio di quest’anno, ha ribadito, se ancora ce ne fosse bisogno, la totale identità di vedute esistente tra Italia e Stati Uniti, e – a più ampio raggio – quella tra un’Europa e un’America mai così coese come negli ultimi anni. I tentativi – tutti di parte dei media italiani – di sostenere qualcosa di diverso, da un Draghi ansioso di smarcarsi dagli Stati Uniti annunciando la volontà di lavorare per cessate al fuoco fino alla presunta diversità di veduta su “L’Ucraina che deve decidere cos’è la vittoria, non noi, non hanno superato la prova dei fatti.
Nel primo caso, l’Italia – probabilmente in maniera consapevole e voluta, stando agli spifferi washingtoniani – ha semplicemente aperto la strada a una dichiarazione simile degli americani, che infatti è arrivata per bocca – o meglio, Twitter – del segretario alla Difesa Austin qualche giorno dopo. Nel secondo caso, Draghi ha utilizzato esattamente le stesse parole che la Casa Bianca aveva usato due giorni prima dell’incontro quando, in una dichiarazione al Washington Post, aveva chiaramente detto che “sta agli Ucraini decidere cosa è un successo”, rimarcando come il supporto avverrà fin quando richiesto e fin quando dovuto, e voluto, da Kyiv.
L’unità transatlantica, come detto, non è mai stata così forte negli ultimi anni. Questa unità, però, comporta non solo diritti ma anche doveri. Da questo punto di vista, negli Stati Uniti, continua ad esserci una percezione ben chiara che i compiti tra loro e gli europei vadano divisi, in particolare in determinati teatri nel vicinato meridionale dell’Unione. Nell’incontro con Biden, Draghi ha rimarcato l’importanza della Libia. Ha sottolineato come la Libia possa essere un “enorme fornitore di gas e petrolio, non solo per l’Italia ma per tutta l’Europa.” Alla domanda di Biden su “cosa faresti”, Draghi ha risposto “dobbiamo lavorare insieme per stabilizzare la Libia.”
Per gli americani, una Libia stabile e scevra da influenze negative esterne rappresenta certamente un interesse. Ciò detto, questo interesse viene però ponderato con altre considerazioni rispetto all’intensità dell’intervento necessario affinché ciò si realizzi. Gli americani continuano ad essere presenti nel Mediterraneo, e non hanno ridotto significativamente – da un punto di vista quantitativo – la propria presenza. Ciò che è cambiato, in questi anni, è la voglia di impegnarsi direttamente e l’attenzione verso queste questioni. Da questo punto di vista, ci sono vari fattori che fanno presi in considerazione.
La Casa Bianca non è particolarmente attiva sul dossier libico, e più in generale si è dimostrata non molto interessata alle questioni maghrebine. Il Segretario di Stato Antony Blinken è stato recentemente in Algeria e in Marocco, ma non ci sono stati scatti particolari né tantomeno l’amministrazione si è dimostrata troppo interessata interventi decisi e significativi nelle questioni regionali. In Libia, l’inviato speciale americano e ambasciatore a Tripoli, Richard Norland, è molto attivo personalmente ma l’impressione è che abbia un ampio mandato per definire priorità e azioni americane, ma senza un intervento massiccio dell’amministrazione o degli altri pezzi del mosaico istituzionale che definisce la politica estera americana a supporto.
Le radici di tale approccio sono varie: gli Stati Uniti vedono la Libia principalmente in un’ottica legata al controterrorismo. Sebbene nell’ultimo anno, in particolare dal giugno 2021 con l’attacco a Fuqaha lo Stato Islamico abbia ripreso timidamente a farsi vedere dopo i bombardamenti americani del settembre 2019 che ne avevo bloccato il ritorno operativo iniziato nel 2017, in particolare nel sud, per Washington tale ritorno non rappresenta ancora una preoccupazione.
Da parte americana c’è sempre una certa ritrosia a impegnare mezzi e risorse, e uomini, in Libia, ritrosia aumentata ancora di più dopo l’uccisione dell’Ambasciatore Chris Stevens nel 2012. Neanche l’arrivo dei russi, prima con la stampa delle banconote per la banca centrale dell’est dal 2016 e poi coi miliziani di Wagner nel 2019, ha cambiato tali priorità. Da questo punto di vista, per gli Americani, devono essere gli europei ad occuparsi di Libia, a lavorare per la sua stabilizzazione, e per ridurre il ruolo che determinate potenze esterne hanno nel paese.
Sebbene mai detto troppo ad alta voce, gli americani hanno apprezzato l’intervento turco di fine 2019 che ha posto fine, da un lato, alla guerra d’aggressione che Khalifa Haftar aveva lanciato nell’aprile di quell’anno, e che stava vincendo grazie al supporto dei mercenari di Wagner, intervenuti in Libia a suo supporto nell’autunno del 2019, e che dall’altro ha creato le basi per il cessate il fuoco dell’ottobre 2020. Idealmente, tale intervento sarebbe dovuto essere europeo, anche perché le relazioni complessive con la Turchia restano complicate e le intese diplomatiche che turchi e russi hanno raggiunto in questi anni, dalla Siria al Nagorno-Karabakh passando appunto per la Libia – alle quale vanno aggiunte anche le questioni relative alla vendita del sistema d’arma antiaereo a lungo raggio S-400 – non sono mai state troppo apprezzate negli Stati Uniti.
Per l’Italia e gli altri paesi europei, in questo senso, è chiaro che gli Stati Uniti vedono la Libia come un caso quasi emblematico di ciò che dovrebbe essere un normale burden-sharing Transatlantico. Una Libia scevra dalla presenza russa è certamente importante, ma non a costo di un intervento diretto. La passività e le divisioni europee, in particolar modo dal 2014, hanno permesso alla Russia, agli Emirati, alla Turchia, all’Egitto, di divenire sempre più centrali in Libia. Certamente, come detto da Draghi, la Libia potrebbe essere un partner energetico molto significativo per l’Europa. Ma, per svilupparne il potenziale, la Libia ha bisogno di investimenti e di essere libera da determinate influenze esterne. Per avere questi investimenti, l’attuale quadro di sicurezza, politico e legislativo dovrebbero cambiare.
Rispetto al secondo passaggio, le tempistiche del blocco petrolifero suggeriscono che ci sia anche una regia esterna. Lanciato formalmente per mano di gruppi locali e tribali scontenti per le condizioni lavorative nei terminali e nei campi, e per la redistribuzione delle risorse, il vero protagonista è chiaramente Khalifa Haftar visto che le sue forze, insieme a ciò che resta delle forze di Wagner che –ridotte rispetto al passato perché alcune centinaia di questi mercenari si sono spostati in Ucraina – continuano a controllare gli impianti della cosiddetta Mezzaluna petrolifera (Il bacino della Sirte).
E Haftar resta principalmente una pedina russa. Infatti, tale blocco è avvenuto giusto qualche giorno dopo che il Governo di Unità Nazionale guidato dal primo ministro Abdel Hamid Dbeibah, ancora formalmente legittimo, aveva votato per l’espulsione della Russia dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, in risposta al riconoscimento russo del governo di Fathi Bashagha, avvenuto già a febbraio.
Come già detto, neanche tale presenza invadente e decisiva russa ha spinto gli americani a essere più decisi e presenti in Libia in questi anni. Per l’Italia e l’Europa, insomma, la questione è quindi cosa fare rispetto alla Libia. Può essere un’opportunità, dimostrando agli americani che l’Europa possa giocare un ruolo geopolitico nel Mediterraneo tale da contenere l’ascesa di potenze come la Russia che usano la loro influenza in questo teatro per avere ulteriori carte da giocare in altre aree.
Oppure un problema, che può spingere gli americani a ridurre la loro attenzione per gli europei qualora i risultati non dovessero essere soddisfacenti. Dato l’impegno e la decisione con cui gli americani si sono mossi in Ucraina, è chiaro che in Libia – e più in generale nel Mediterraneo e in Africa – la questione per loro non è di risorse e capacità ma di volontà. Un’azione più incisiva dell’Italia e dell’Europa in Libia, in tal senso, può aiutare a rafforzare ulteriormente il momento transatlantico che la guerra in Ucraina ha creato. Ciò deve essere fatto in autonomia, coordinandosi con Washington ma senza pretendere un intervento diretto.