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Perché chip e supply chain sono il fulcro della sfida tra Usa e Cina

Indo Pacifico, perché chip e supply chain sono il fulcro della contesa Usa-Cina

Il viaggio di Joe Biden tra l’importanza strategica dell’industria dei semiconduttori, e l’obiettivo di costruire in Asia una rete economica, tecnologica e di sicurezza che sia alternativa a quella cinese. Il Csis rivela che la Cina spende più di chiunque altro nel sovvenzionare l’industria tech, che però non riesce a produrre i microchip avanzati

Sicurezza, tecnologia, economia: tre direttrici strettamente interconnesse nella corsa allo sviluppo. Durante il viaggio in Corea del Sud, il presidente americano Joe Biden ha visitato una fabbrica Samsung che produce i chip “critici per i nostri due Paesi e settori essenziali dell’economia globale”. Dopodiché il suo omologo Yoon Suk-yeol ha auspicato “un’alleanza economica e di sicurezza” tra Washington e Seoul, basata “sulla tecnologia avanzata e sulla cooperazione delle catene di approvvigionamento”.

I semiconduttori più avanzati – quelli coi circuiti sempre più piccoli – sono le motrici dello sviluppo tecnologico, dunque assolutamente strategici per economia e sicurezza. Il tema è in sottotraccia anche durante la visita di Biden in Giappone e traspariva pure dalle sue parole sulla difesa di Taiwan, patria del leader globale TSMC, che produce il 55% dei chip avanzati al mondo. In controluce: la Cina, il vero avversario strategico degli Usa, impegnati a contrastarla creando un’alternativa economica nella regione, l’Indo-Pacific Economic Framework, o Ipef.

Il successo non è garantito, come spiega il Center for Strategic and International Studies, per via delle differenze locali e la mancanza di incentivi chiari. Ma se dall’Ipef scaturisse anche solo un accordo sul digitale – che crei standard tecnologici basati sui valori democratici e di libero mercato – si potrebbe parlare di una piccola vittoria per gli Usa. Perché questi standard esisterebbero in opposizione a quelli cinesi, in cui si riflettono le distorsioni dell’autocrazia pechinese, e rafforzerebbero il cordone sanitario tecnologico-economico-securitario che gli Usa si propongono di costruire.

L’avversario è temibile: secondo le stime più conservative del Csis, che nell’ultimo rapporto ha saputo compensare la mancanza di dati ufficiali, la Cina sta spendendo più di qualunque altro Paese (e il doppio degli Usa) per sovvenzionare la sua industria tecnologica. Nel 2019 i finanziamenti ammontavano almeno a 1,73% del Pil del Paese – oltre 248 miliardi di dollari, valore nominale, che diventano 407 per parità d’acquisto. È tutto parte della spinta di Xi Jinping per l’autosufficienza tecnologica: tra i settori più foraggiati in assoluto ci sono i materiali, l’hardware e l’automotive.

Queste cifre da capogiro tradiscono anche un certo nervosismo: il Celeste Impero è il maggior importatore di chip al mondo, si appoggia ai fornitori esteri – tra cui Taiwan – per i semiconduttori avanzati perché non è in grado di produrli. Le sanzioni americane al colosso tecnologico Huawei lo privano da anni di know-how e tecnologie cruciali, e a Pechino mancano anche i mezzi per “disegnare” sul silicio i circuiti dei chip più avanzati.

Come ha spiegato al Financial Times Eric Johnson, ad dell’azienda giapponese JSR (che fornisce materiale essenziale per i semiconduttori), la mancanza di infrastrutture per la litografia ultravioletta estrema danneggia gravemente la capacità cinese di sviluppare i semiconduttori avanzati e ne mina la pretesa di autosufficienza tecnologica. Quel genere di tecnologia è frutto di decenni di ricerca e investimenti immensi, ed è emerso nei Paesi democratici dell’Occidente geopolitico. Nel costruire l’Ipef, Biden conta anche su questo; il successo dell’iniziativa potrebbe rivelarsi un vantaggio determinante nella contesa pluridecennale con la Cina.

Immagine: Twitter @POTUS


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