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Il rischio di dare missili a lungo raggio agli ucraini. Scrive l’ambasciatore Sanguini

Di Armando Sanguini

Siamo nella terza fase del conflitto: la coesione occidentale comincia a manifestare qualche crepa e Putin avanza. E ora? L’analisi dell’ambasciatore Armando Sanguini

Sono trascorsi tre mesi da quando Vladimir Putin ha messo in atto l’odiosa, brutale e inaccettabile invasione dell’Ucraina con una forza militare che lasciava ipotizzare i più nefasti disegni strategici, dall’occupazione dell’intero territorio ucraino alla estromissione del presidente Volodymyr Zelensky e la sua sostituzione con un politico amico di Mosca, ad altre ancor più preoccupanti minacce.

In quelle settimane abbiamo riscoperto la realtà di una vera guerra.

A dire il vero le guerre, tante, troppe, ce le abbiamo avute e le abbiamo intorno a noi, da quelle più vicine alle rive del Mediterraneo a quelle più lontane dell’Estremo Oriente. Ma non erano nel nostro condominio europeo e le abbiamo vissute e continuiamo a viverle come una realtà a noi estranea e comunque lontana. Anche la guerra dei Balcani che pure ci toccava da molto vicino ci ha coinvolto emotivamente di meno. E lo stesso dicasi per quella in Afghanistan conclusasi con il rovinoso ritiro che tutti ricordiamo.

Questa guerra russo-ucraina, invece, l’abbiamo sentita e la sentiamo nostra, nella nostra casa.

Un indubbio merito va ascritto a Zelensky, l’ex attore diventato presidente, che ha saputo coniugare le doti dell’uomo di palcoscenico con quelle di un vero e proprio leader e con quella sua maglietta militare a maniche corte ha conquistato le più diverse opinioni parlamentari e pubbliche dell’Occidente facendo appello ai comuni valori e ideali calpestati dall’attacco russo.

E che dire della popolazione ucraina che attraverso le immagini e le testimonianze che ci sono arrivate attraverso i nostri media ha rivelato tutta la sua sofferenza ma anche la sua grande capacità di resistenza e di resilienza. Abbiamo visto soprattutto anziani, donne e bambini, e un’infinita serie di palazzi sventrati e case distrutte. Ci sono state risparmiati, pudicamente, gli scontri militari ma non le loro traumatiche conseguenze.

Molti di noi hanno pensato e temuto che la forza militare russa si sarebbe rivelata schiacciante, ma poi si è progressivamente compreso che quella forza aveva intrinseche debolezze più che compensate dal patriottismo ucraino, alimentato anche dal sostegno occidentale fatto di solidarietà politica ma anche di robusti e crescenti contributi militari, di sanzioni commerciali e personali) ma anche di collaborazione sociale e umanitaria (profughi). Il tutto evitando atti e misure (no-fly-zone o armi eccedenti le necessità della difesa, per esempio) che potessero configurare una co-belligeranza ed esporlo, l’Occidente, a uno scenario bellico inesorabilmente globale.

Quasi da subito è cominciata una vera e propria girandola di visite e di telefonate di personalità politiche desiderose/vogliose di assumere il ruolo di mediatori, da Emmanuel Macron a Naftali Bennett, a Recep Tayyip Erdogan l’antagonista-connivente con Mosca, mentre a Washington e a Londra i toni assumevano toni bellicosi in un crescendo che mirava a spostare l’asse di equilibrio della guerra. Tutto ciò nel silenzio respingente di Putin che per qualche tempo è parso cedere posizioni sul terreno e nell’intransigenza vocale di Zelensky, mentre la scia di morte, di distruzione e di esodi forzati si allargava e si allungava a dismisura.

Poi è subentrata una terza fase nella quale la coesione occidentale ha cominciato a manifestare qualche crepa, principalmente in casa europea dove petrolio e gas hanno formato delle vere e proprie pietre di inciampo che si sono andate facendo più ostiche anche in considerazione dell’incipiente onda recessiva accentuata da un tasso di inflazione che sembrava ormai archiviato. È in questa fase, l’attuale, che Putin sembra aver corretto la sua strategia di guerra in una direzione più circoscritta: al Donbass e alla striscia che lo collega alla Crimea. E la cronaca ne segue puntualmente l’ombra avanzante dopo aver raccontato della lenta conquista dell’acciaieria dei Mariupol con la resa di quanto restava del famigerato battaglione Azov. Ci ragguaglia anche sulle rinnovate dichiarazioni di condanna senza attenuanti della Russia e passa quasi sotto silenzio il clima antirusso che si va diffondendo, ben al di là di Putin e dei suoi accoliti al potere.

Nel nostro quotidiano dibattito sulla guerra si vanno insinuando, da un lato, una sorta di rassegnato fatalismo che giunge a dare quasi per scontato che la guerra potrebbe essere lunga, addirittura di anni; dall’altro, un percettibile abbassamento della soglia di condivisione delle ragioni ideali e dei valori con l’Ucraina a fronte dei costi crescenti che essa sta comportando e potrebbe, soprattutto, comportare nel futuro prossimo. Il nostro presidente del Consiglio, Mario Draghi, non ha esitato a intercedere con Putin per allentare il blocco dei cereali, anticamera di devastanti conseguenze nel mondo intero, e ha raccolto un certo successo.

Non ha, invece, riscontrato alcuna disponibilità a una tregua e apparentemente non ha neppure fatto cenno al “piano di pace” italiano che avrei visto positivamente transitare per la Commissione europea piuttosto che essere riversata direttamente al segretariato delle Nazioni Unite. Ma non era da aspettarsi altro, visto che il negoziato è in realtà già partito nel momento in cui Zelensky ha risposto a Putin dichiarando di non voler negoziare se non dopo il ritiro dei russi dal territorio ucraino.

Quindi due posizioni dichiaratamente contrapposte. Ciascuna attendendo la mossa dell’altro; con l’aggravante, nel caso in esame, che Putin sta a un passo dall’assumere il controllo del Donbass e dintorni e uno Zelensky che, con i suoi, comincia a temerlo e lamenta la mancanza di un sostegno adeguato da parte della Nato e, di riflesso, dell’Occidente. Mentre Joe Biden, incoraggiato da Londra, sta valutando l’ipotesi, davvero poco saggia, dell’invio in Ucraina di missili a lungo raggio.

Penso che Putin non attenda altro che di poter sventolare la bandiera della vittoria, sul Donbass per l’appunto. E sono persuaso che Zelensky, dal canto suo, sia capace di vincere la pace dopo aver vinto, almeno moralmente, la guerra.

Auguriamoci che Biden lo sappia/voglia incoraggiare in tal senso, evitando di proseguire nel disegno di indebolire il fattore più debole del binomio Mosca-Pechino; con l’inevitabile rischio di incancrenire una guerra civile che iniziata a livello intra-ucraino oltre un decennio addietro, è stata trasformata da Putin in un confronto Mosca-Washington. Un confronto destinato a scaricare i suoi costi, salati, molto salati, su tutti gli inquilini del condominio europeo. Un campanello d’allarme che deve far riflettere.

(Foto: Instagram White House)



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