La portata globale della guerra in Ucraina costringe la Nato, alleanza territoriale per la deterrenza di Mosca, a iniziare a fare i conti con la sfida cinese. Appunti e idee in vista del Summit di Madrid. L’analisi di Alice dell’Era (Geopolitica.info)
L’attuale percezione dell’Alleanza nei confronti di Pechino rappresenta la naturale evoluzione del progressivo ribilanciamento economico e politico degli affari globali verso Oriente. Agli inizi degli anni Dieci, la Repubblica Popolare Cinese (Rpc) non era ancora contemplata all’interno dell’agenda dell’Alleanza Atlantica. Il Concetto Strategico del 2010 era, infatti, incentrato sulle tradizionali minacce del post-Guerra Fredda: la Russia, il terrorismo, la proliferazione di armamenti nucleari e i rischi pertinenti al dominio cyber, e alle nuove tecnologie. Pertanto, il documento principale volto a delineare la traiettoria strategica della Nato ignorava completamente la principale trasformazione negli equilibri del XXI secolo, ovvero l’ascesa di Pechino a livello globale.
In seguito al Pivot to Asia di Washington, tuttavia, gli alleati europei cominciarono a interrogarsi su quale relazione intrattenere con la RPC. Pechino era prevalentemente vista come un potenziale partner da ingaggiare. Già dal 2002, l’Alleanza e il governo cinese avviarono una serie di dialoghi bilaterali volti a discutere delle rispettive percezioni strategiche. Non erano, inoltre, mancate occasioni per promuovere la collaborazione con Pechino.
Emblematica, in questo senso, la partecipazione delle forze navali cinesi a fianco della Nato in operazioni di antipirateria nell’Oceano Indiano. Nel 2012, inoltre, una delegazione guidata dal Tenente Generale Bornemann, l’allora direttore generale dello Staff Militare Internazionale, visitò per la prima volta la RPC. Con lo scoppio della crisi in Crimea nel 2014, il dibattito in seno all’Alleanza relativo ai rapporti con Pechino venne tuttavia oscurato dalle rinnovate preoccupazioni per la sicurezza del fianco est.
La percezione di Pechino da parte della Nato si è nuovamente evoluta in seguito alla crescente rivalità tra la Cina di Xi e l’America di Trump. Sotto le pressioni di Washington, gli alleati hanno ricominciato a interrogarsi sulle sfide e opportunità poste dalla RPC. Se le dichiarazioni del vertice di Londra del 2019 riflettevano un primo timido ripensamento della potenziale minaccia cinese, l’identificazione della Cina come un rivale sistemico risulta meno ambigua nel rapporto Nato 2030, il quale offre importanti riflessioni su come l’Alleanza debba affrontare il problema “Pechino”.
Il documento suggerisce, ad esempio, la creazione di un organo consultivo che si occupi di delineare la linea politica dell’Alleanza nei confronti della Cina. La centralità della RPC nel pensiero strategico della Nato è stata riconfermata ancora più apertamente lo scorso anno, durante il vertice di Bruxelles: il comunicato congiunto – infatti – ha denunciato le tattiche coercitive di Pechino descrivendole come una “sfida sistemica all’ordine internazionale, alle aree rilevanti per la sicurezza dell’Alleanza, e […] in contrasto con i valori fondamentali sanciti nel Trattato di Washington”. A preoccupare l’organizzazione sono soprattutto la penetrazione economica cinese nell’area transatlantica, la mancanza di trasparenza di Pechino a livello militare e le sue capacità cyber e di disinformazione.
Ancora più pressante, alla luce della guerra in corso tra Russia e Ucraina, è l’estensione della cooperazione con Mosca. Lo scorso gennaio, i due paesi hanno ribadito la propria “amicizia senza limiti” e hanno siglato un accordo di 30 anni per la fornitura di gas russo alla Cina attraverso la realizzazione di un nuovo gasdotto. Nell’ultimo anno, i due partner hanno, inoltre, condotto varie esercitazioni militari congiunte. A detta del ministro degli esteri cinese Wang Yi, le relazioni sino-russe sembrerebbero resistere alla prova del panorama internazionale in evoluzione. Sebbene rimangano seri dubbi sulla possibilità che un allineamento formale tra Mosca e Pechino si concretizzi, tale preoccupazione rimane comunque una questione che l’Alleanza intende monitorare.
Nonostante il crescente riconoscimento delle sfide poste dalla RPC, il Segretario Generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg si è, però, astenuto dal definire apertamente Pechino una minaccia o un’entità nemica. Questo perché all’interno dell’Alleanza stessa manca ancora il consenso su quale sia effettivamente il livello di pericolo posto dalla Cina. Se alcuni degli stati membri sembrano disposti a bilanciare la RPC nelle acque dell’Indo- Pacifico, altri continuano a essere titubanti, preferendo concentrarsi su pericoli più vicini a casa.
La Nato vista da Pechino
Così come il resto delle alleanze americane, la compagine transatlantica è, secondo Pechino, un residuo della Guerra Fredda. La RPC percepisce, quindi, qualsiasi atto dell’Alleanza Atlantica come il riflesso della Cold War Mentality di Washington. Ad esempio, per il governo cinese, l’allargamento dell’Alleanza dopo la caduta del muro di Berlino rispecchia tale modalità di approcciarsi alle dinamiche internazionali.
Non sorprende, quindi, la tradizionale opposizione a tale processo. Tale percezione si estende anche a un potenziale allargamento degli obiettivi strategici della Nato nell’Indo- Pacifico. I crescenti riferimenti all’assertività cinese da parte dell’Alleanza, così come da parte di alcuni dei suoi membri, in particolare quelli appartenenti al G7, non possono che infondere sospetti a Pechino. La RPC ha pertanto denunciato le dichiarazioni del vertice di Bruxelles, accusando la Nato di gonfiare la minaccia cinese ed esortandola a “smettere di utilizzare gli interessi e diritti legittimi della Cina come scusa per manipolare la politica dei blocchi, creare scontri e alimentare la competizione geopolitica”.
Secondo Pechino, dunque, la cosiddetta “minaccia cinese” non è altro che una scusa conveniente attraverso cui i membri dell’Alleanza cercano di garantirne la sopravvivenza in assenza di pericoli imminenti. In quest’ottica, la Nato è vista, quindi, come un ulteriore tassello nella strategia contenitiva e di accerchiamento promossa da Washington a scapito della Repubblica Popolare. Pertanto, Pechino teme che l’Alleanza Atlantica possa gradualmente trasformarsi in un’organizzazione dal raggio d’azione globale. A confermare tali dubbi sarebbe, secondo i rappresentanti della RPC, la crescente presenza di forze navali europee nell’Indo-Pacifico: è da sottolineare, però, come tali operazioni siano condotte dai singoli paesi e non sotto il comando dell’Organizzazione.
Il nodo ucraino
In una conferenza stampa tenuta il 18 febbraio, pochi giorni prima dell’invasione russa, Stoltenberg, in risposta a una domanda sulla necessità di affrontare la minaccia congiunta posta da Mosca e Pechino, ha affermato che, sebbene gli alleati siano aperti al dialogo con la Cina, la realtà è che queste due potenze autoritarie appaiono sempre più vicine. Alla luce di tali affermazioni, cosa possiamo aspettarci nel futuro delle relazioni tra Nato e RPC?
Al momento, la crisi in Ucraina ha sicuramente ricentrato le priorità della Nato attorno alla minaccia più prossima, ovvero quella russa. Se gli occhi della Nato sono puntati su Mosca, il comportamento di Pechino rimane, però, sotto esame. A più di due mesi dallo scoppio del conflitto, la posizione cinese continua a rimanere tutt’altro che chiara. Da un lato, Pechino si è
astenuta dal condannare le azioni russe e ha, invece, riconosciuto le preoccupazioni dietro alle scelte del Cremlino, accusando l’Occidente di aver provocato la crisi. In una chiamata con la controparte tedesca, Wang ha, ad esempio, ribadito le tradizionali critiche all’Alleanza, invitando la Nato ad “abbandonare completamente la mentalità da Guerra Fredda.” Secondo il quotidiano cinese Global Times, inoltre, il sostegno economico e militare fornito a Kyiv rende Stati Uniti e Nato direttamente responsabili del prolungamento del conflitto.
Dall’altro, l’esistenza di un fronte allineato tra Mosca e Pechino non è così scontata, viste le discrepanze nell’approccio cinese. Almeno due delle più grandi banche statali del paese hanno, ad esempio, limitato i finanziamenti per gli acquisti di materie prime russe. Reuters riporta inoltre che, sebbene la linea ufficiale del governo sia contraria all’uso di sanzioni, Pechino non sembra aver finora aiutato Mosca a eludere le misure restrittive adottate dall’Occidente. Anche l’assenza del veto cinese al Consiglio di Sicurezza dell’Onu evidenzia l’ambivalenza della RPC.
Una netta presa di posizione da parte di Pechino rimane alquanto improbabile. L’ambiguità cinese potrebbe però sicuramente influenzare la percezione reciproca di Nato e Cina. L’Europa continua a prendere atto della posizione di Pechino. Al termine del vertice straordinario di marzo, i capi di stato Nat hanno ad esempio espresso preoccupazioni riguardo la possibilità che la Cina fornisca assistenza a Mosca. Ciò non può che condizionare la percezione collettiva della minaccia cinese. Se gli alleati dovessero interpretare la duplicità della RPC come indicativa della sua complicità nell’aggressione russa, ciò avrebbe sicuramente dei costi per Pechino.
È probabile che una simile interpretazione possa orientare le valutazioni dietro la stesura del nuovo Concetto Strategico. A riguardo, Stoltenberg ha dichiarato infatti che il nuovo concetto dovrà per la prima volta prendere in considerazione l’impatto delle politiche coercitive di Pechino per la sicurezza transatlantica. Un possibile esito sarebbe quindi un maggiore impegno da parte degli alleati a contrastare non solo la Russia ma anche la Cina. Ciò non è così improbabile viste le pressioni dell’Amministrazione Biden finalizzate a promuovere una “maggiore connettività tra partner e alleati democratici, che vada oltre le coalizioni regionali”. Allo stesso tempo, uno scenario in cui la Nato ricalibri i suoi obiettivi strategici in funzione anticinese andrebbe a confermare i timori della Rpc, rischiando così di inasprire ulteriormente l’attrito e diffidenza già esistenti tra Pechino e l’Occidente.