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Conviene all’Italia un’altra sospensione dei parametri di Maastricht?

Se l’estensione della sospensione fosse un’occasione per riflettere una volta per tutte sulla materia e trovare criteri con una base economica di maggior sostanza, sarebbe cosa buona e giusta che porterebbe a un’unione monetaria più forte e darebbe prestigio e peso all’euro. Se si tratta di un temporaneo libera tutti invece… Il commento di Giuseppe Pennisi

Tra i bisbigli che vengono da Bruxelles, e sono ripresi da qualche giornale italiano, c’è la possibilità di una estensione della sospensione dei criteri per la vigilanza europea delle politiche di bilancio nell’unione monetaria, i cosiddetti parametri di Maastricht e i loro successivi raffinamenti come il Patto di crescita e di stabilità.

La sospensione venne decisa nei momenti più bui della pandemia da Covid-19; sarebbe dovuta durare sino alla primavera-estate 2022. Le ragioni per estenderla (non è chiaro se la proposta della Commissione intenderà un’estensione fino al 2023 o solo sino a metà anno prossimo) dipende dall’evoluzione dell’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina e, quindi, dall’andamento dell’economia internazionale. Alcuni parlamentari già gioiscono pensando a finanziamenti in disavanzo di bilancio, che sarebbero particolarmente utili e gustosi nei mesi in cui si va verso la fine della legislatura e, quindi, ad elezioni.

Sappiamo come sono nati, circa trent’anni fa i parametri di Maastricht. Vennero proposti dalle delegazioni del Benelux (uno dei giovani diplomatici era stato mio allievo alla Johns Hopkins University), i quali adottarono un metodo semplice e trasparente ma molto rozzo: le medie ponderate dei rapporti debito ed indebitamento, Pil degli Stati che avevano una buona probabilità di entrare nell’unione monetaria. Romano Prodi li definì “stupidi”; non aveva tutti i torti.

Da allora sono passati trent’anni. Occorre chiedersi cosa conviene all’Italia e agli altri 18 Stati dell’unione monetaria. Se l’estensione della sospensione fosse un’occasione per riflettere una volta per tutte sulla materia e trovare criteri più “intelligenti” e, soprattutto, con una base economica di maggior sostanza, sarebbe cosa buona e giusta che porterebbe a un’unione monetaria più forte e darebbe prestigio e peso all’euro tra le maggiori valute degli scambi e della finanza internazionale. Se si tratta di un temporaneo libera tutti in attesa di tornare tra un anno – un anno e mezzo ai parametri che Prodi definì “stupidi”, è forse meglio non farne niente.

Non siamo in contesto internazionale che permette lassismo. Diamo una breve occhiata alla finanza internazionale per poi chiedersi cosa conviene all’Italia. In primo luogo, i mercati azionari e obbligazionari non indicano il bel tempo: lo Standard & Poor 500 ha subito un crollo del 20% da gennaio (quando toccò il livello più alto), il Nasdaq del 30% da novembre. Il Bitcoin (su cui tanti hanno puntato) vale la metà di quanto valeva in novembre. Le borse europee non sono andate molto meglio: da dicembre Euro Stoxx 50 ha segnato una contrazione del 15%. La determinante è l’inflazione ormai entrata, a causa della guerra, degli aumenti dei prezzi delle materie prime, della scarsità di cereali, di rottura delle consuete catene del valore, nelle aspettative.

Le autorità monetarie federali americane – come illustrato su questa testata – hanno adottato una severa stretta monetaria – si prevede un amento dei due punti percentuali dell’interbancario – che produrrà inevitabilmente un rallentamento dell’economia, ove non una vera e propria recessione. Sono state facilitate dal fatto che il tasso di disoccupazione è bassissimo (attorno al 3,5% della forza lavoro), In questo quadro, la Banca centrale europea (Bce) dovrà prima o poi gradualmente abbandonare le “politiche monetarie non convenzionali” e i “programmi speciali” di acquisto di titoli di Stato dei Paesi più colpiti dalla pandemia e con maggior debito della Pubblica amministrazione rispetto al Pil.

In questo contesto l’Italia è seconda solo alla Grecia tra i Paesi dell’eurozona con i più alti rapporti tra debito della Pubblica amministrazione e Pil: a fine 2021, erano questi Grecia (209,3%), Italia (160%), Portogallo (137,2%), Cipro (125,7%), Spagna 125,2%), Belgio (118,6%) e Francia (118%).

Il Documento di Economia e Finanza (Def) prevede che il rapporto debito-Pil si ridurrà gradualmente grazie alla “strategia del denominatore”, ossia un tasso di crescita economica maggiore di quello del tasso d’interesse. Le previsioni della Commissione europea pubblicate ieri 16 Maggio 2022 non sono incoraggianti. La crescita del Pil reale sia nell’Ue sia nella zona euro è ora prevista al 2,7% per il 2022 e al 2,3% per il 2023, in calo rispetto al 4,0% e al 2,8% (2,7% nella zona euro), rispettivamente, delle previsioni intermedie d’inverno 2022. Per l’Italia le cose vanno anche peggio: crescita al 2,4% per l’anno in corso e 1,9% per il prossimo e in precedenza si puntava rispettivamente al 4,1 %e al 2,3 %. I mercati lo percepivano già da qualche tempo: ciò spiega l’aumento dello spread.

Ciò che fa più paura è l’inflazione. In Europa tocca il picco del 7,5% ad aprile, record per l’Ue. Nell’anno si attesterà al 6,1. Anche per il nostro Paese alla fine la quota sarà quella del 6%. Qualche consolazione per l’Italia sul fronte dei dati macroeconomici. Il rapporto deficit-Pil scenderà al 5,5% quest’anno e al 4,3 nel 2023. Il debito si ridurrà al 147,9 e quindi al 146,8. Anche nell’Unione il debito si contrarrà di qualche punto al 94,7. Così come la disoccupazione cala al 9,5 per cento nel 2022 e all’8,9 nel 2023.

In questo contesto, una estensione della “sospensione” dei parametri, ancorché “stupidi”, può fare più male che bene se un Parlamento che sta per essere rinnovato (con un terzo in meno degli scranni di quello attuale) ne trova la stura per ulteriori finanziamenti in deficit. Potrebbe, però, essere utile se un governo di larghe intese e supportato da una vasta maggioranza parlamentare proponesse a Bruxelles e ai partner europei di rivedere l’intera materia, anche e soprattutto sulla base del progresso scientifico e dell’esperienza degli ultimi tre decenni.


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