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Un piano Draghi per il dopoguerra. Appunti americani

Di Simone Crolla

A una settimana dalla due giorni a Washington di Mario Draghi sono ben visibili i segni di una visita che ha messo l’Italia al timone dell’Europa di fronte la crisi. Il commento di Simone Crolla, consigliere delegato dell’American Chamber of Commerce in Italy

L’accoglienza riservata a Mario Draghi dall’amministrazione americana è stata piuttosto calorosa. Dopo la politica estera spesso ambigua dei due governi precedenti, a Washington c’era voglia di un’Italia che, sotto Draghi, ha ribadito in maniera chiara dal day 1 la propria appartenenza atlantica.

Per quanto detto sull’Ucraina, la determinazione riguardo alla guerra e una chiara visione di futuro oltre il conflitto, il nostro premier ha ulteriormente rafforzato la sua posizione di importante soggetto geopolitico in uno scacchiere internazionale un po’ scosso. Come sottolineato da Draghi, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha causato una “svolta nel paradigma della geopolitica”. Ha rafforzato i legami tra Ue e Usa, isolato Mosca, sollevato profonde questioni per la Cina. Cambiamenti che “sono ancora in divenire” ma che “sono destinati a rimanere con noi per lungo tempo”.

La due giorni a Washington è stata un costante ribadire l’indiscutibile lealtà – qualità rara nella nostra politica estera – riguardo all’impegno euro-americano contro l’aggressione russa all’Ucraina. Tuttavia, già dall’incontro con il presidente Joe Biden nella Sala Ovale, Draghi ha elencato le sfide che Italia ed Europa dovranno affrontare, sottolineando come, insieme al supporto militare, sia anche necessario sforzarsi di costruire un orizzonte politico che porti Kiev e Mosca alla trattativa.

Una negoziazione pragmatica, che passa dalla resistenza armata dell’Ucraina come condizione necessaria per invitare la Russia ad un compromesso che comporti la cessazione delle ostilità. Una narrativa che testimonia una consapevolezza geopolitica davvero matura: la pace è altro, richiede molto tempo, anche una generazione, e non sempre viene raggiunta. Dobbiamo però sederci intorno a un tavolo e aprire una trattativa.

Una posizione condivisa tra i principali Paesi dell’Ue e ribadita da Draghi nel ricevere il Distinguished Leadership Award alla serata di gala dell’Atlantic Council (tenutasi a DC l’11 maggio, stesso giorno in cui, nel 1995, più di 170 nazioni decisero di estendere indefinitamente il Trattato di non proliferazione nucleare). Un riconoscimento presentato dal Segretario al Tesoro, e collega di antica data ai vertici delle banche centrali, Janet Yellen, davanti a una platea del ‘Who is who’ di Washington.

Yellen che, nell’introdurre il nostro premier ha citato il suo celebre “Whatever it takes”, pronunciato per salvare l’euro durante la crisi del debito in Europa, seguito da un passaggio altrettanto cruciale, “credetemi, sarà sufficiente”. La speranza di tutti è che lo sarà anche questa volta.

Oltre a suggellare la sua caratura internazionale, la visita di Draghi a Washington è un segnale che l’Europa può esistere e l’Italia può esserne protagonista. Infatti, mentre ai tempi dell’annessione russa della Crimea nel 2014 la nostra posizione era stata ambigua, e di fatto il Paese aveva rallentato e limitato le misure di ritorsione messe in atto dall’Ue, oggi l’Italia è uno dei Paesi più determinati nei confronti della Russia – come ha ribadito il ministro degli Esteri di Mosca Sergei Lavrov.

Un cambio di passo che non è rimasto sottotraccia. Tanto che, pochi giorni fa, il Financial Times ha pubblicato un articolo in cui si sostiene che si tratti di “uno dei più grandi cambiamenti di politica in Europa da vari anni a questa parte, assieme al recente cambiamento di strategia militare della Germania”.

Non solo il pubblico ma anche il privato. Come nel caso delle sanzioni, ‘rilanciate’ privatamente dalle grandi corporation internazionali, come recentemente sottolineato da Bloomberg, le aziende italiane, storicamente vicine alla Russia (e che, nel 2014, erano state molto attive nel contrastare le sanzioni) oggi sono completamente allineate alla posizione di Draghi.

Basti pensare che alcune delle principali società italiane negli Usa, come Eni (il cui Ad Claudio Descalzi è stato a sua volta premiato dall’Atlantic Council), Beretta, Fincantieri, Intesa e Leonardo, erano presenti a Washington, insieme ai vertici della Niaf, quasi a rafforzare ulteriormente lo spirito costruttivo della missione a stelle e strisce del nostro governo. D’altronde, questo viaggio aveva anche – discretamente ma pragmaticamente – una valenza business, perché la storica amicizia tra Italia e Stati Uniti si forgia anche sulla qualità dei reciproci investimenti.

Siamo ben lieti che le posizioni da noi espresse non più tardi di due mesi fa proprio su questa rivista (un piano Marshall 2.0 per l’Est Europa e una Conferenza di Pace paneuropea, volta a non umiliare la Russia, ma a mettere in campo tutte le armi diplomatiche possibili), siano state oggetto dell’agenda dell’incontro tra il premier e il presidente Biden.

Avendo avuto il privilegio di assistere in prima persona a questa due giorni di Draghi a Washington, ho sentito la responsabilità che avrà la nostra classe politica quando dovrà cimentarsi con le elezioni tra un anno, mantenendo ferma la barra atlantica. D’altronde, in questo tempo di sfide globali senza precedenti, che solo insieme possiamo superare, l’intesa tra Washington e Roma è più importante che mai, per rinnovare e accrescere il capitale di fiducia su cui si fonda la nostra storica amicizia.

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