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La politica italiana, tra piani di pace e Pnrr che (forse) prende forma

Di Massimiliano Del Casale e Marcovalerio Pozzato

Cosa accadrà tra un anno? Saprà la nostra politica fare tesoro, in così breve tempo, dei risultati che l’attuale governo e soprattutto il suo leader avranno conseguito? Il Pnrr libererà preziose risorse per la nostra economia. Un ulteriore incremento di debito pubblico, non vi è dubbio, ma che, per effetto delle riforme che dovranno essere varate, registrerà in breve la tanto attesa inversione di tendenza. L’opinione di Marcovalerio Pozzato, Magistrato della Corte dei conti e di Massimiliano del Casale, Generale di Corpo di Armata

A pochi giorni dalla resa delle forze ucraine arroccate nell’”Azovstal” e dalla simbolica caduta di Mariupol, che da oltre un mese era già nelle mani di Mosca, le acque del Mare d’Azov sono diventate “interne” alla Federazione Russa. E rischiano di rimanere tali per molto tempo. Mentre, con il controllo di quei porti, è già iniziata la battaglia del grano mediante il blocco delle navi per i Paesi che hanno sanzionato il Cremlino. Ora, gli scontri più intensi si sono spostati a nord-est, nella provincia di Severodonetsk, in apparenza, mirati non tanto ad una conquista territoriale quanto all’eliminazione delle forze ucraine schierate nell’area. E la diplomazia segna il passo. Senza una seria e decisa iniziativa a livello internazionale, il tentativo del nostro ministro degli Esteri è naufragato ancor prima di vedere la luce. Un piano di pace su quattro fasi: immediato cessate il fuoco, apertura di un dibattito sulla possibile neutralità dell’Ucraina, le questioni territoriali di Crimea e Donbass e un nuovo accordo sulla sicurezza europea e internazionale (insomma, una nuova Yalta).

Un piano del quale occorre prima di tutto annotare la singolarità del percorso scelto: predisposto dal ministro Luigi Di Maio -si dice, in coordinamento con Palazzo Chigi- e presentato al Segretario Generale dell’Onu, Guterres, nonché ai partner del G7 e del Quint, il gruppo informale di orientamento composto da Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti. Ma qui, per dirla come il sempre attuale Antonio Lubrano, “la domanda nasce spontanea”. Anzi, più di una domanda. Perché? Perché ora? Perché questa modalità? Perché non coinvolgere sin da subito le parti in causa? Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il “falco” Medvedev ha sarcasticamente bollato il piano come irricevibile. Putin e Zelensky non sono mai stati formalmente messi al corrente, né dell’iniziativa né dei suoi contenuti. Si potrebbe allora considerarlo come un tentativo di accreditarsi come mediatore internazionale, ricevendone le stimmate dalle Nazioni Unite, e un modo per dare concretezza alle recenti prese di posizione di Movimento 5S e Lega.

Da settimane, Conte e Salvini han preso via via le distanze dalla fornitura di armi a Kiev. Il primo, dall’iniziale limitazione alle sole armi “difensive” -sperando che, prima o poi, chi le definisce tali ne illustri la semantica-, ad un (quasi) “no” all’invio, a favore dell’apertura di un dialogo e di un negoziato. Il secondo, battendo l’analoga via del dialogo e preferendo dedicare le risorse alle questioni interne piuttosto che fornire supporto, anche bellico, all’Ucraina. Come se non si trattasse delle facce di una stessa medaglia. Un piano presentato proprio mentre i russi iniziano ad avere qualche significativo risultato sul campo. In sintesi, un piano intempestivo. E pensare che il nostro è il Paese che ha dato i natali a Machiavelli.

Prende così corpo un’iniziativa dettata più da un’esigenza di politica interna che da un concreto e condiviso impegno del governo nazionale. Draghi non si è mai espresso nel merito né ha fatto proprio il progetto pur avendo avuto l’opportunità di condividerlo con il presidente Biden, in occasione della sua recente visita negli Stati Uniti. Uno schiaffo all’Italia, dunque? Si direbbe piuttosto uno schiaffo ad un certo modo di fare politica. Estera, in questo caso. D’altronde, quando si rivolgono a caldo epiteti al leader di un paese, che ha di sicuro la responsabilità di aver scatenato una catastrofe mondiale, non ci si può aspettare poi che tutto venga dimenticato in così breve tempo e senza conseguenze.

Tramontata ora ogni ipotesi di negoziato e preso atto che “la Russia per il momento non vuole la pace”, che si fa? Continueremo a supportare l’Ucraina, anche con materiale bellico, o rinunceremo ad aiutare un paese aggredito, assicurandogli un generico quanto ambiguo sostegno? Sappiamo come questo modo di gestire le relazioni internazionali, peraltro già adottato in passato con la Libia del governo Al Serraj, non abbia mai funzionato, lasciando in quel caso l’iniziativa ad altri attori regionali (la Turchia) e causando la perdita di opportunità economiche e di livello di ambizione internazionale. Nel caso poi dell’Ucraina, tale approccio potrebbe risultare anche come fattore disgregante in ambito Unione Europea. A tal proposito, il prossimo Consiglio Europeo si presenta come uno dei più difficili degli ultimi tempi. Pur avendo sinora conseguito indubbi risultati, Il “partito” delle sanzioni inizia a trovare qualche oppositore, alla luce dei pesanti riflessi sulle economie occidentali. Il calo o, in alcuni casi, il blocco delle forniture energetiche e di materie prime dalla Russia e dall’Ucraina inizia a far emergere le prime forti criticità. E non è un caso che il premier ungherese Orban abbia chiesto di eliminare dall’agenda dei lavori il tema del blocco delle importazioni dalla Russia, pena l’esercizio del veto sulla decisione per l’ennesimo pacchetto di sanzioni da emanare.

D’altronde, come biasimare – almeno, in questa circostanza- la postura assunta da un Paese privo di sbocco al mare e, quindi, totalmente dipendente dai flussi della rete di gasdotti? Questa è la ragione per cui, prima di scatenare un confronto sull’hard-power, appare più convincente l’adozione di misure concrete, strutturate, progressive e condivise, indipendentemente dagli accadimenti di guerra. Tra l’altro, ricordiamo bene come all’inizio del conflitto le stime del governo indicavano un periodo non inferiore a tre anni il tempo necessario per affrancarsi dal gas russo. Dunque, cos’è cambiato da quel momento? La scoperta di quanto una guerra possa essere crudele? O che ancor oggi esistono i criminali di guerra? Per quanto riguarda il nostro Paese, affascina e inorgoglisce il carisma internazionale di cui gode Mario Draghi. Ma questo è anche il nostro grande limite. Competenza, visione strategica, convinto euro-atlantismo sono i caratteri che fanno del nostro premier un leader credibile e del nostro governo una compagine ancora orientata al risultato. Ma cosa accadrà tra un anno? Saprà la nostra politica fare tesoro, in così breve tempo, dei risultati che l’attuale governo e soprattutto il suo leader avranno conseguito? Il Pnrr libererà preziose risorse per la nostra economia. Un ulteriore incremento di debito pubblico, non vi è dubbio, ma che, per effetto delle riforme che dovranno essere varate, registrerà in breve la tanto attesa inversione di tendenza.

Il vero fattore di novità è rappresentato dalla necessaria “saldatura” fra il Piano, che trova originaria derivazione dall’emergenza pandemica, e le attuali esigenze di rilancio dell’economia generale, seriamente ferita da un conflitto solo apparentemente imprevedibile. Alla data odierna i 45 obiettivi da raggiungere (su cui non solo sembra essersi consolidata una condivisione governativa, ma appare anche una possibilità di realizzazione entro il prossimo trimestre) risentono certamente delle problematicità introdotte da un conflitto che spiega non solo effetti dal punto di vista “tecnico”, (cioè militare e territoriale in senso stretto), ma anche in settori che risentono più o meno direttamente del confronto fra le Potenze coinvolte. Ci riferiamo, ad esempio, agli obiettivi digitali dell’Italia e alla transizione digitale: non è casuale, in questo quadro, il richiamo agli attacchi hacker a importanti siti istituzionali del Paese. Devono essere svolte, da ultimo, alcune riflessioni sull’allineamento dei procedimenti di verifica comunitaria e nazionale, anche con riferimento al conseguimento dei traguardi e degli obiettivi (Milestone and Target).

In questo scenario, è opportuno ipotizzare una coerenza di fondo al concerto dei controlli periodici comunitari (correlati al riconoscimento delle rate di rimborso delle risorse del PNRR in favore dell’Italia), delle verifiche del ministero dell’Economia e dei controlli della Corte dei conti. Giova rammentare, in conclusione, che il Pnrr si situa naturalmente al centro dei controlli della Corte dei conti già da quest’anno, con particolare focalizzazione, in armonia con la Delibera n. 3/2022/G della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato (Quadro programmatico dei controlli sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato per l’anno 2022 e nel contesto triennale 2022-2024), sulle grandi tematiche relative alla tutela dell’ambiente e della salute, alle politiche del lavoro, allo sviluppo sostenibile, alla digitalizzazione, all’istruzione, all’inclusione e al sostegno sociale. Sul versante della gestione degli appalti, la particolarità delle vicende economiche legate al Piano si lega a profili di criticità e di problematicità con riferimento alla rendicontazione contabili. In estrema finale sintesi, l’esigenza di portare avanti gli appalti correlati agli investimenti finanziati dal Piano deve necessariamente coniugarsi a regole contabili e di rendicontazione che vadano a snellirsi senza tuttavia risentire, in termini negativi, sull’efficacia delle necessarie verifiche.

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