A fine anni Ottanta la feluca aveva stupito i colleghi lasciando il partito in era sovietica per seguire la sua passione, la diplomazia. È in Italia da 9 anni, dopo un’esperienza a Pechino che ha segnato la sua carriera e il suo modo di vivere pacato. Ma la guerra in Ucraina potrebbe averlo cambiato
L’Italia non è il primo Paese in cui durante il mandato di Sergey Razov come ambasciatore russo sono stati scoperti e resi noti casi di spionaggio.
Ma partiamo proprio dall’Italia. Il 5 aprile scorso, il governo Draghi ha annunciato l’espulsione di 30 diplomatici russi per ragioni di sicurezza nazionale. Una misura che, come spiegato dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è stata assunta “in accordo con altri partner europei e atlantici” nel contesto della situazione di “crisi conseguente all’ingiustificata aggressione all’Ucraina da parte della Federazione Russa”.
Come già raccontato su Formiche.net, le decisioni dei Paesi europei – a cui Mosca ha reagito in maniera sproporzionata – hanno seguito gli orrori di Bucha ma hanno soprattutto a che fare, oltre che con la volontà di mandare un segnale forte e compatto al leader Vladimir Putin, con le attività degli ufficiali dell’intelligence russa che sotto l’immunità diplomatica operano nei Paesi europei al fine di, per esempio, seminare il caos alimentando la disinformazione o reclutare agenti. Basti pensare al caso dell’ufficiale della Marina italiana Walter Biot, accusato di aver passato a Mosca documenti segreti della Nato, relativi anche alla situazione in Est Europa.
La prassi prevede che in occasioni simili viene convocato l’ambasciatore del Paese ospite al fine di notificargli la decisione. In quel caso il segretario generale della Farnesina, l’ambasciatore Ettore Sequi, ha ricevuto alla Farnesina, su istruzione del ministro Di Maio, l’ambasciatore Razov. Lo stesso, a fine marzo del 2021, era stato ricevuto da Elisabetta Belloni, allora segretario generale della Farnesina e oggi direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, che aveva protestato per la “gravissima vicenda” Biot e comunicato “l’immediata espulsione di due funzionari russi coinvolti” (Alexey Nemudrov, addetto navale e aeronautico dell’ambasciata russa a Roma, e Dmitri Ostroukhov, impiegato nello stesso ufficio della sede diplomatica).
Ma, come dicevamo, non è la prima volta che sotto il mandato di Razov si verificano episodi di diplomatici accusati di spionaggio. Il 20 gennaio 2000 il diplomatico, allora ambasciatore a Varsavia, viene convocato al ministero degli Esteri polacco che gli notifica l’espulsione di nove membri dello staff diplomatico russo accusati di essere coinvolti in “operazioni di spionaggio attivo” contro il Paese ospitante. È la prima espulsione di diplomatici russi dal 1993 da parte della Polonia, Paese alleato dell’Unione Sovietica (è sufficiente citare il Patto di Varsavia, appunto). Avviene neppure un anno dopo l’ingresso della Polonia nella Nato.
I due episodi, quello polacco del 2000 e quello italiano del 2022, presentano alcune somiglianze. Una su tutte, però: per il Paese ospitante e i suoi rapporti internazionali il momento è cruciale. Tanto che entrambe le espulsioni dei diplomatici sono sembrate quasi un atto dovuto anche agli occhi russi che non potevano non prevedere la volontà dell’altra parte di procedere con un repulisti. Invece, il caso Biot del marzo 2021, con cui il governo Draghi ha voluto mandare un chiaro messaggio, ha in un certo senso rafforzato la posizione di Razov e il suo mandato da Mosca. Casi simili, infatti, spesso costano il posto all’ambasciatore.
Ma chi è Razov? È nato il 28 gennaio 1953. Si è laureato all’Università statale delle Relazioni internazionali di Mosca nel 1975 con un dottorato in Economia. Sposato con un figlio e una figlia. Molto stimato dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov, è arrivato a Roma nel maggio del 2013. Prima è ambasciatore nella Repubblica popolare cinese (2005-2013, mandato durante il quale ha svolto anche la funzione di caponegoziatore per il programma nucleare nordcoreano), viceministro degli Esteri (2002-2005) e, come detto, ambasciatore in Polonia (1999-2002). Entrato in carriera diplomatica nel 1990 è direttore del Dipartimento dei Paesi dell’Estremo Oriente ed Indocina del ministero degli Esteri dell’Unione Sovietica dal 1990 al 1992, ambasciatore in Mongolia dal 1992 al 1996 e direttore del Terzo dipartimento dei Paesi della Comunità degli Stati Indipendenti del ministero degli Esteri della Federazione Russa dal 1996 al 1999.
Prima, tra il 1975 e il 1990, la sua è una carriera interna al Partito comunista dell’Unione Sovietica. A un certo punto, però, compie una scelta per la quale molti lo prendono per matto: decide di lasciare il partito nel momento in cui questo è l’unica cosa che conta nel Paese e di cui è figura in forte ascesa nel dipartimento Esteri. Vuole dedicarsi alla sua passione: la diplomazia. Una scelta che si rivela azzeccata quando, con la caduta dall’Unione Sovietica, il partito viene smantellato mentre il ministero degli Esteri subisce soltanto un po’ di ristrutturazione.
È un diplomatico di carriera ma, come detto, si è laureato all’Università Statale di Mosca, non all’Istituto statale di Mosca per le relazioni internazionali, che è la fucina dei diplomatici russi la cui sede si trova a pochi passi dall’accademia che fu del Kgb e che è oggi dell’agenzia di intelligence che ne ha preso il testimone, cioè l’Fsb. È uno dei pochissimi diplomatici russi a non aver frequentato quell’istituto.
Chi lo conosce e lo frequenta individua nel suo periodo in Cina uno snodo fondamentale sia per la sua carriera sia per la sua vita.
Prima la carriera: il passaggio da Mosca a Roma è un promoveatur ut amoveatur. Infatti, lui, come buona parte del ministero degli Esteri russo, è sempre stato scettico sulle aperture alla Cina. Queste, però, per via del rapporto tra il presidente Putin e l’omologo cinese Xi Jinping, sono ormai da almeno un decennio decise direttamente al Cremlino. Punto di svolta di quel dialogo al vertice è lo storico accordo bilaterale in occasione della visita in Cina del presidente Putin nella prima metà del 2014. La sempre ambita Città eterna è per Razov un premio di consolazione.
Ma dalla Cina – e qui veniamo agli aspetti della quotidianità – l’ambasciatore ha portato con sé un modo di vivere “cinese”, molto controllato. Tanto che chi lo conosce è pronto a scommettere che non ci sia neppure una sua virgola nella durissima nota della diplomazia russa contro il ministro Di Maio alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina (quella della diplomazia “inventata per risolvere situazioni di conflitto e alleviare le tensioni, e non per viaggi vuoti in giro per i Paesi e assaggiare piatti esotici ai ricevimenti di gala”).
Ma la guerra in Ucraina, decisa dal Cremlino ignorando i dubbi dell’intelligence e della diplomazia, potrebbe aver messo in difficoltà anche l’ambasciatore Razov. Sembra dimostrarlo lo show aggressivo di qualche settimana fa fuori dal cancello di piazzale Clodio, dov’è andato a sporgere querela contro La Stampa e il giornalista Domenico Quirico per un articolo in cui si citava – screditandola – l’ipotesi di una congiura di palazzo per rimuovere il presidente Putin. “Abbiamo teso una mano di aiuto agli italiani e ora qualcuno vuole mordere questa mano”, ha detto in quell’occasione il diplomatico con riferimento agli “aiuti” russi di inizio 2020 contro il Covid-19 (non certo disinteressati sotto il profilo dello studio del virus). Qualche settimana prima Razov ha inoltrato ai parlamentari italiani una dichiarazione intimidatoria del ministro Lavrov in cui quest’ultimo, con l’invasione dell’Ucraina partita da una settimana, avvertiva: “Le azioni dell’Unione europea non resteranno senza risposta”.
Negli ambienti diplomatici chi lo difende spiega piazzale Clodio come un passo falso di cui lo stesso Razov potrebbe essersi pentito e definisce la dichiarazione inoltrata come semplice lavoro diplomatico. Invece, chi lo critica evidenzia le parole da lui pronunciate in una delle diverse apparizioni sui media italiani di qualche settimana fa: “Lo stato dei rapporti bilaterali è in forte degrado e non dipende da noi”, ha detto ospite di Stasera Italia su Rete 4.
Ma da chi lo ritiene ancora un uomo di mediazione a chi ne sottolinea la svolta aggressiva il giudizio sul futuro è uguale: meglio che non venga richiamato a Mosca. Un po’ perché dopo nove anni conosce benissimo la politica italiana. Un po’ perché non si sa chi potrebbe sostituirlo. Non è affatto detto sarebbe più dialogante, specie nel caso in cui la scelta arrivasse direttamente dal Cremlino.
(Foto: Twitter @rusembitaly)