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Bene il Sunshine Act, ma serve un cambio di mentalità. La versione di Rasi

Il Sunshine Act, che andrà a regolare i rapporti tra medici e mondo dell’industria, è una legge dovuta, e un primo pilastro per una collaborazione trasparente ed efficiente tra pubblico e privato in Sanità. A dirlo l’ex direttore esecutivo dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), Guido Rasi, che però auspica un cambio di mentalità. E se oggi in Italia ci fosse un’altra emergenza sanitaria…

La Commissione Affari Sociali della Camera ha approvato definitivamente il “Sunshine act”, un provvedimento che, attraverso la creazione del registro telematico “Sanità trasparente”, un po’ sul modello statunitense, prevede la pubblicazione di tutti i rapporti di natura economica tra imprese e professionisti, strutture e organizzazioni del settore salute. Abbiamo chiesto un parere a Guido Rasi, ex direttore esecutivo dell’Agenzia europea per i medicinali e advisor presso il Cmrt di Harvard.

Lei ritiene che questa risoluzione possa rappresentare un vantaggio per l’industria farmaceutica italiana?

Si tratta di un atto dovuto e molto tardivo. Fa sorridere che in un Paese come il nostro, nel quale il pubblico rimarca sempre la distanza dal privato, evidenziando in ogni occasione utile temi come il conflitto d’interesse, si sia tardato tanto a fare una legge, diciamolo pure, scontata. Per l’industria italiana è indifferente. Anche perché si era data, sorprendentemente, un codice etico per allinearsi alle altre nazioni, che applica già da molto tempo. Sicuramente, è una legge valida, una legge dovuta, che dovrebbe essere il primo pilastro per una collaborazione trasparente ed efficiente tra pubblico e privato.

Se questo è il primo passo verso una definizione facile, chiara, di regole semplici che sovrintendono a questo rapporto, liberando tutto il potenziale che è conservato nella logica della sinergia tra pubblico e privato, allora sì che questa legge può essere interpretata come un grosso vantaggio per l’industria. Però, direi, la svolta è legata a una nuova mentalità, più a che a una risoluzione puntuale. La risoluzione è valida nel momento in cui rivela che questa mentalità sta finalmente, per quanto faticosamente, prendendo piede.

Lei giustamente ha fatto notare che in fondo non si tratta di una risoluzione nuova, ma di un principio già presente nel codice deontologico di Farmindustria. Secondo lei, quali dovrebbero essere allora i cambiamenti strutturali da operare nel mondo della farmaceutica italiana? Cambiamenti immediati ma anche a lungo termine, che tocchino in profondità la vita dell’industria e non si limitino, per così dire, al make-up? Come si fa, in altre parole, a rendere continuativo e fecondo il rapporto pubblico-privato?

In primo luogo, per quanto concerne i cambiamenti immediati, bisogna porre una prima pietra di politica farmaceutica in cui a fronte di interventi pubblici nel campo della ricerca e innovazione ci siano dei riconoscibili benefici di investimenti in Italia. Questo dovrebbe essere il primo passo. Poi ci dovrebbe essere una definizione degli obiettivi a partire dagli obiettivi del Paese. Per questo è importante fare un mix tra top down e bottom up nell’ambito della ricerca, perché il bottom up è fondamentale per il progresso della ricerca così come il top down lo è per l’immediata fruizione dei prodotti innovativi che sono l’esito, in definitiva, della ricerca stessa. Solo così la ricerca può essere inquadrata nella vita del Paese offrendo immediati benefici, quali la risposta a carenze di tipo sanitario, o la risoluzione di determinate emergenze.

A proposito di carenze, lei cosa ne pensa del modo in cui l’Italia e l’Europa stanno rispondendo alla crisi energetica? Ci potrebbero essere conseguenze interessanti per il mondo del Pharma?

Indubbiamente c’è una reazione importante. Per quanto mi riguarda, io sono tra quelli che, forse non avendo una conoscenza approfondita del sistema energetico, auspicano che da un male si possa tirar fuori un bene. In questo caso il bene consisterebbe nell’accelerare diversi processi in atto. In particolare, penso al superamento di tanti “no” che ci siamo sentiti dire negli ultimi anni, e hanno portato il Paese indietro di decenni.

Ma lei pensa che in questo momento l’Italia potrebbe essere pronta a fronteggiare una sfida sanitaria nuova? Cosa ci ha insegnato davvero il Covid-19?

Nella crisi pandemica l’Italia ha fatto molto bene due cose, ma per il resto, a mio modo di vedere, ancora non ha compiuto nessun intervento davvero strutturale. Tra le esperienze positive registrerei soprattutto il primo lockdown e poi una campagna vaccinale spettacolare, condotta egregiamente e decisamente riuscita. Cose ottime, non c’è che dire, ma legate a un fatto eccezionale, per cui a livello sistemico, o per così dire, di routine, di fatto non è cambiato nulla.

Un altro dato positivo rispetto a quello che è accaduto nel nostro Paese, è pure il fatto che, a livello locale, tantissimi gestori sono stati in grado di riconfigurare le strutture, i reparti e via dicendo, adattandoli alle reali esigenze dei pazienti. Questo però è dipeso esclusivamente dalla loro capacità individuale e dalla loro iniziativa. Non c’è stato, e manca ancora, un piano strategico in tal senso. Ecco perché abbiamo ancora a che fare con esempi, lodevoli, di abdicazione, ma anche, per così dire, di creatività italica. Il problema è che è un navigare a vista.

E il Pnrr?

Ecco, secondo me il Pnrr resta una grande possibilità, non è ancora detto che non si riesca a intercettarne i vantaggi. Tuttavia, non c’è ancora la cosa più importante di tutte, quella da cui, in realtà, si sarebbe dovuto partire, e cioè la definizione degli expertise che ci vogliono e un piano di assunzioni serio, credibile, sostenibile nel tempo. Insomma, non c’è nessun sistema di governance, nessuna metodologia di organizzazione che possa prescindere dalle capacità di chi deve guidarla, o gestirla, o, peggio ancora, chi deve pensarla e poi vederne la nascita. Mi pare che di questo problema non ci sia alcuna consapevolezza profonda.

Quindi, riprendendo la domanda, a che punto è l’Italia? Cosa succederebbe in caso di criticità?

In questo momento, in caso di emergenza sanitaria l’Italia sarebbe destinata al collasso. Perché, non si sono sostenuti gli operatori, un grosso numero dei quali sono morti, o andati in pensione, o si ritirano perché sono stati completamente frenati dal burn out. Questa è una realtà. Credo che questo sia proprio un momento nel quale il Paese si ritrova esaurito e spossato da due anni di emergenze che in parallelo non hanno visto però alcun intervento strutturale.

Come se ne esce?

Direi che se ne esce sui gomiti. Provando faticosamente a rialzarsi, ma la verità è che se il Paese oggi venisse provato da un’altra crisi seria com’è stata quella del Covid, certamente non potrebbe reggere l’urto.

 

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