L’Ue sta pensando di tassare le piattaforme di contenuti digitali, in funzione della banda utilizzata dai loro servizi, per finanziare lo sviluppo infrastrutturale delle telco europee. Peccato che l’ecosistema e l’infrastruttura di internet non funzionino così, come spiega l’esperto Ccia
Si è riaccesa, in Europa come altrove, l’annosa questione della “internet tax”. Questa volta i funzionari di Bruxelles (e Washington) stanno pensando di far pagare le grandi aziende tecnologiche per via di quanto i loro contenuti “occupino” le bande di trasmissione dati. L’idea è di tassare i soliti sospetti – Amazon, Apple, Google e Meta/Facebook, più Netflix – per finanziare gli investimenti infrastrutturali di miglioramento delle reti, tra cui il 5G, consci del fatto che il consumo medio di gigabyte per persona è destinato ad aumentare.
“Una manciata di operatori occupa da sola più del 50% della larghezza di banda mondiale. È giunto il momento di riorganizzare l’equa remunerazione delle reti”. Così il commissario europeo al mercato interno, Thierry Breton, su Twitter. Anche Margrethe Vestager, la commissaria per la concorrenza spesso in disaccordo con il collega, appoggia l’idea: “Vediamo che alcuni operatori generano molto traffico che permette alla loro attività di esistere, ma non contribuiscono effettivamente a far funzionare quel traffico”, ha detto in conferenza stampa.
I commissari si sono basati anche sull’ultimo rapporto di Etno, l’associazione degli operatori telco europei, secondo cui servirebbero 20 miliardi di euro all’anno da parte delle suddette Big Tech. La storia si ripete: dieci anni fa Etno aveva lanciato una proposta equivalente alla Commissione, che però l’aveva cassata perché contraria al principio della neutralità della rete (secondo cui tutti i dati vanno trattati ugualmente). Ma stavolta a Berlaymont c’è un ex Ceo di aziende sia telco che tech – Breton è passato da Thomson-RCA, France Télécom e Atos – e a Bruxelles sembrano simpatizzare con l’idea di chiedere soldi alle multinazionali americane per finanziare lo sviluppo europeo.
Ci sono diversi però. Il primo riguarda i ruoli dei produttori di contenuti, dei fruitori e delle telco. Per utilizzare la metafora di Diego Ciulli, capo delle relazioni istituzionali di Google in Italia, una soluzione come quella ponderata dalla Commissione equivarrebbe a Ryanair che chiede al Vaticano di finanziare il rinnovamento della flotta perché i suoi clienti devono prendere un aereo per visitare i musei.
Un consumatore acquista l’accesso alle reti telco perché gli servono come tramite per ottenere i contenuti desiderati. Ribaltando la prospettiva, si potrebbe dire che i produttori di contenuti stimolano la domanda di connettività e dunque fruttano denaro alle telco. Che dovrebbero poi spiegare perché inseriscono gli abbonamenti ai servizi di streaming nei bundle per i consumatori, se il loro costo in termini di banda incide così tanto, o l’ottima performance delle reti nel periodo di carico aggiuntivo dovuto ai lockdown.
Secondo Christian Borggreen, vicepresidente della Ccia (che comprende diverse Big Tech), una tassa del genere si basa su presupposti fuorvianti circa il funzionamento dell’ecosistema di internet. Non da ultimo, come ha spiegato a Formiche.net, non tiene conto dell’apporto concreto delle aziende tech per avvicinare i contenuti agli utenti finali europei. Si va dai cavi sottomarini ai data center, dall’ottimizzazione della distribuzione dei contenuti (attraverso il caching) agli accordi commerciali con le telco stesse. Sostenendo dei costi che addirittura superano quelli delle telco.
Tralasciando i contenuti e le applicazioni web, che pure sono il motivo per cui il consumatore paga l’accesso alla rete, le Big Tech hanno già investito 72 miliardi di euro all’anno in infrastrutture di rete dal 2014 al 2018. Basandosi su dati europei, la Ccia stima che nel 2020 queste aziende hanno speso il doppio delle telco in infrastrutture (anche in Italia). Dati che l’Ue apparentemente non ha preso in considerazione.
Infine, ha concluso Borggreen, c’è un problema con la pretesa delle telco di far pagare sia chi sta a valle (i consumatori) che chi sta a monte (i produttori di contenuti), diventando di fatto un gatekeeper del contenuto e delle applicazioni internet. L’idea stessa di far pagare solo alcuni servizi fa a pugni con il principio di net neutrality, le stesse regole europee che Etno ha combattuto, senza successo, nel passato. Senza dimenticare che l’Ue si è impegnata a non introdurre nuovi prelievi discriminatori sulle infrastrutture o tasse su internet nell’ambito di una riforma fiscale globale che imporrà alle multinazionali di pagare una tassa minima e comporterà remunerazioni Paese per Paese.