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L’occhio di Marco e la faccia di Fabrizio. Il Moro di Bellocchio, tra ispirazione e ideologia

Un regista lavora sempre intorno alla stessa opera. L’opera di Bellocchio si intride di Bellocchio: della dialettica delle origini, tra studi salesiani e approdi marxisti-maoisti, dell’incontro con lo psicanalista Massimo Fagioli, del cinema prima studiato e poi praticato. Anche in “Esterno notte” c’è tutto questo: c’è ideologia e umanità, grande tecnica e poesia

Moro è di gran lunga lo statista più rappresentato nella cinematografia italiana. Certamente per la sua personalità da irregolare della politica, che sfugge alle categorie più rassicuranti in cui, un certo pensiero dominante nella cultura cinematografica degli anni ruggenti, ha archiviato i leader democristiani, più vicini alle oleografie della provincia beghina di Pietro Chiara, con l’onorevole dalla doppia morale, baciapile ma con l’amante, come nei b movie con Lando Buzzanca.

La tragica fine di Moro e della sua scorta, le 55 giornate di prigionia, le sue lettere, il suo ritrovamento nella Renault rossa, sono, invece, elementi drammaticamente perfetti per l’iconografia dolorosa che si addice alla tragedia greca. Dove il coro è fatto dagli attori della politica di 44 anni fa, ma coreuti siamo anche noi, spettatori distribuiti sugli spalti dell’immenso teatro italiano, con incontri rinnovati da cicli generazionali.

Infatti con questo di Bellocchio sono almeno sei i film che, nel corso di più decenni, hanno messo al centro la figura di Aldo Moro, più altri che lo richiamano con ampie citazioni (da “Romanzo di una Strage”, con Gifuni che lo interpreta, a “Romanzo criminale”, tanto per ricordarne un paio). Un numero imponente, che forse racconta qualcosa di profondo inciso in quello straniamento chiamato coscienza collettiva.

Marco Bellocchio torna sul soggetto che aveva maneggiato con cura e senso poetico in “Buongiorno notte”, nel 2003, usando l’approccio cronachistico mescolato con l’immaginifico di una storia con il “se”: se le Br l’avessero liberato? Il ritorno del maestro alla figura di Moro, concepito per la serie televisiva coprodotta dalla Rai, passa al cinema in due lungometraggi, “Esterno notte 1” e “2” che mettono in corpo la ridondanza necessaria a confezionare quasi sei ore di filmato, e questo, naturalmente reagisce sul prodotto visto sul grande schermo. Ma, fatta questa premessa, diciamo che il film resta un lavoro maturo di un regista colto e curioso dell’uomo, che, come accade per le esperienze autoriali più importanti, porta nel film il suo occhio, la sua visione, la sua cognizione del dolore.

Si dice che un artista, alla fine, faccia sempre la stessa opera, con sfumature e maturità diverse. Probabilmente è così. Solo che per Bellocchio la chiave principale è quella psicanalitica. E l’analisi è il piatto forte anche di questo film. Come inquadrare l’intero coro dei politici, dolenti, indecisi, annegati nel dilemma “trattare o no”, se non come anime perse nell’angoscia di una scelta che non poteva essere delegata ad altri fuori da sé?

Il personaggio di Cossiga, per esempio, eroe tragico, che nella realtà conobbe la psicanalisi (ampiamente citata con la presenza dell’analista), è scelta come emblema per raccontare questo stato confusionale di un intero Paese. Uno stato cui non riusciva a sottrarsi neanche il vitreo, imperscrutabile Giulio Andreotti, che alla notizia del rapimento di Moro corre a vomitare e lo farà ancora nei momenti più drammatici della narrazione. O papa Montini, fragile nel corpo e volitivo nel desiderio di soccorrere l’amico Aldo, che offre il suo dolore con il cilicio, e viene asfissiato dagli incubi di un Moro che porta la croce in una infinita Via Crucis, seguito da tutta la classe politica, in una notte plumbea e spettrale, come una litografia di Doré che racconta l’inferno.

Ogni leader politico ha problemi irrisolti con la sua famiglia: l’ipertrofia dell’azione politica è l’ipotrofia del rapporto familiare. Neanche la dolcezza del rapporto del grandissimo Gifuni-Moro, col nipotino, che va a prelevare dal suo lettino nell’altra stanza per portarlo nel letto tra sé e la moglie Noretta, riesce a ristabilire l’equilibrio necessario in famiglie in cui la politica va a mangiarsi tutto e lascia solo briciole. Bellocchio dichiara tutta la sua empatia nei confronti di Moro, scavando nella sua umanità profonda, nel senso “culturale” della sua mitezza, illustrandone la tragedia con una fotografia barocca e con interni claustrofobici anche quando sono saloni immensi. L’agnello sacrificale in una tragedia greca, solo che qui non si vede manco l’ombra di un deus ex machina che venga a salvare capra e cavoli.

Un regista, dicevamo, lavora sempre intorno alla stessa opera. L’opera di Bellocchio si intride di Bellocchio: della dialettica delle origini, tra studi salesiani e approdi marxisti-maoisti, dell’incontro con lo psicanalista Massimo Fagioli, del cinema prima studiato e poi praticato. Anche in “Esterno notte” c’è tutto questo: c’è ideologia e umanità, grande tecnica e poesia.

E il racconto tragico di uomini che tentavano di guardare al bene comune. Sì, perché, scrostato dall’ideologismo che pure aleggia con concessioni all’oleografia corrente (ad esempio l’ambiguità del solito Andreotti), il film riconosce alla politica del tempo una sua dignità. E a Moro una nobiltà superiore. Le giovani generazioni potranno capire, dunque, oltre la celebrazione dei galatei anniversari ad ogni anniversario della sua morte.


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