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Nella crisi russa l’Europa è alla deriva. Scrive Korinman

Di Michel Korinman

Qualcuno avvisi l’Europa: continua a navigare nella crisi senza una bussola. Gli Stati Uniti hanno un end-game russo, l’Ucraina ovviamente anche. Qui si va a traino, ed è un grande rischio. L’analisi di Michel Korinman, professore emerito alla Sorbona, Collectif Outre-Terre

Nel 1899-1902 il Reich (da pacifista a pangermanista), la Francia (vendicatrice di Fascioda) e i cugini olandesi erano entusiasti dei boeri sudafricani, ampiamente fantasticati, contro gli inglesi . 2022: l’America e l’Europa si identificano massicciamente e giustamente con l’aggressore ucraino contro l’aggressore russo.

Ma a rischio di ignorare che, data la volontà occidentale di costringere l’avversario russo a una capitolazione incondizionata, stiamo camminando, come nel 1914, come sonnambuli (Christopher Clarke) verso una terza guerra mondiale (o quantomeno una guerra europea), questa volta nucleare, e quindi militarmente molto peggiore delle due precedenti: “Fare concessioni alla Russia oggi significa piegarsi alla legge del più forte. Non fare concessioni significa piegarsi alla legge del più pazzo” (Henri Guaino, già consigliere speciale dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy).

È la “mossa da poker” denunciata dal maestro della nuova cittadinanza tedesca, il filosofo Jürgen Habermas. È come se ci rifiutassimo ostinatamente di imparare le lezioni della storia. Ora, con la consegna agli ucraini di armi più pesanti e molto più precise (come il Multiple Launch Rocket System), solo l’avanzata delle forze del Cremlino nel Donbass sta scongiurando un confronto tra Occidente e Russia che non sia per procura. È perché i russi stanno attualmente vincendo (alla faccia dei nostri generali, impegnati da settimane a denunciare le reali carenze dell’esercito del Cremlino) che si accontentano di minacciare gli europei con un’escalation (sparando missili ipersonici) e non interpretano il sostegno occidentale in termini di cobelligeranza, se non retoricamente. E poi, una Russia umiliata, come la Germania a Versailles, non diventerebbe alla fine un’enorme Corea del Nord, lo Stato più pericoloso del mondo?

In questo contesto, l’Europa appare subordinata agli Stati Uniti, che hanno un preciso obiettivo bellico, quello di indebolire il più possibile la Russia (e quindi vietarle di rinnovare la sua azione bellica), e che alcuni non esitano a proclamare (un po’ frettolosamente) il grande vincitore della guerra russo-ucraina, poiché sono riusciti a raccogliere dietro di sé l’Occidente e la Nato, presto ampliata, e potranno ora rivolgersi contro la Cina con i loro alleati indopacifici; Joe Biden (ogni volta corretto da uno staff imbarazzato) ha indicato per due volte la volontà di difendere Taiwan in caso di aggressione cinese .

Il problema è sapere se gli europei, militarmente in prima linea ed economicamente vulnerabili (rischio di recessione in assenza di forniture di gas), hanno gli stessi interessi e gli stessi obiettivi degli americani.

Ovviamente è facile morire (in redazione) fino all’ultimo soldato ucraino. Ma visto l’attuale aumento del pericolo e il rischio che la situazione sfugga di mano, è indubbiamente opportuno che, una volta condannata l’aggressione, l’Unione europea non si allinei alle posizioni dell’intrepido presidente Volodymyr Zelensky e dei suoi ministri (che dal loro punto di vista, comprensibilmente, le rimproverano di non fare abbastanza in termini di aiuti e di voler internazionalizzare totalmente il conflitto russo-ucraino) e che ristabilisca la propria credibilità agli occhi di Mosca nel quadro di un eventuale negoziato.

Questa posizione è simile a quella di papa Francesco, che ha parlato contro l’aggressione russa pur mantenendo la possibilità di una mediazione.Come fece Sarkozy nel 2008 durante il conflitto russo-georgiano. Più precisamente: Henry Kissinger non ha forse raccomandato nel 2014 al Washington Post una “finlandizzazione” dell’Ucraina? Per non parlare del fatto che lo stesso Zelensky ha abbandonato a metà marzo un’integrazione con la Nato che era stata “sospesa” al vertice di Bucarest di inizio aprile 2008.

Perché non tornare al vecchio progetto di un cordone sanitario, né russo né occidentale, che comprenda la Moldavia (meno la Transnistria in attesa dell’indipendenza formale), la Georgia (che a quanto pare teme i referendum sull’autointegrazione con la Russia nelle regioni separatiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia e sta paradossalmente scivolando nell’orbita di Mosca) e l’Armenia? Era davvero necessario prendere in considerazione unilateralmente l’integrazione dell’Ucraina nell’Unione europea quando questa avrebbe potuto fungere da contrappeso – naturalmente differito – all’esclusione della Nato? Era proprio necessario tornare, nel bel mezzo della guerra russo-ucraina, a una logica di blocco accogliendo la Finlandia (addio al processo di Helsinki!) e la Svezia, ovviamente volontariamente, nell’Alleanza Atlantica?

Tre fattori dovrebbero indurre gli europei ad assumere una posizione simile:

– Qual è il nostro problema? Putin o i russi? Anche se la stampa occidentale si affanna a sottolineare le defezioni degli oligarchi o lo sgretolamento di un mondo culturale comunque favorevole all’Occidente, a fine marzo i sondaggi rivelavano un fortissimo consenso dell’83% nei confronti del presidente russo. E anche un improbabile cambio di regime non porterebbe probabilmente alcuna evoluzione in materia, perché è forse la frazione più dura dell’esercito russo, insoddisfatta della gestione iniziale dell'”operazione militare speciale”, che si imporrebbe.

Come trent’anni fa nell’ex Jugoslavia, si tratta di una situazione eminentemente geopolitica di implacabile scontro di rappresentazioni nazionali tra russi e ucraini, da un lato, e tra gli stessi ucraini, dall’altro. E non ha senso affermare che il diritto internazionale ha la precedenza sui miti nazionali, quando questi ultimi strutturano la vita delle nazioni come un inconscio collettivo (Maurice Halbwachs) .

– La Russia è tutto tranne che isolata sul pianeta. La Cina (naturalmente doppiogiochista, perché la sua espansione è legata al mantenimento di importanti flussi commerciali); l’India, che non vuole separarsi dal suo fornitore di armi; il Brasile di Bolsonaro (ed eventualmente di Lula), che cerca uno status internazionale. E poi tutta una serie di Paesi africani “indipendenti” come l’Algeria. Mentre in Europa si sta delineando una frattura tra l’asse di nazioni determinate Gran Bretagna-Polonia-Paesi Baltici e Paesi come la Germania (implicitamente concentrata sui propri interessi) e la Francia ostile a qualsiasi allargamento dell’Ue. Per non parlare del nucleo serbo-ungherese filo-russo all’interno e all’esterno dell’Unione (secessione della Republika Srpska già avviata in Bosnia). Soprattutto non si può escludere una fusione tra Russia e Bielorussia.

– Con l’ipotesi di una vittoria russa nell’intero Donbas e sulla costa del Mar Nero (con Odessa città libera come Danzica meridionale), Zelensky rischia di trovarsi in una posizione insostenibile. Se si rassegnerà a un accordo, anche territoriale (in una seconda fase), sarà una rottura con le frange ultranazionaliste già allarmate dalla possibilità di un nuovo processo di Mosca (Azovstal); se rifiuterà ogni concessione, saranno almeno gli europei a finire per stancarsi. Ed è probabile che più passa il tempo, più lo spazio diplomatico di Zelensky si restringa. Inoltre, ci si può legittimamente interrogare sul destino delle scorte di armi consegnate dall’Occidente: dopo l’ex Jugoslavia e la Libia, l’Ucraina?

Per apprezzare la portata complessiva del disastro derivante dalla guerra russo-ucraina, dobbiamo cambiare scala con l’impennata dei prezzi agricoli e la minaccia di esplosioni sociali, ad esempio in Nord Africa. Russia e Ucraina insieme rappresentano il 30% delle esportazioni mondiali di grano e il 17% di quelle di mais. L’Egitto, scosso dall’inflazione, dipende dalla Russia e dall’Ucraina per oltre il 70% del suo grano e, in stato di emergenza, chiede aiuto a una comunità internazionale che ricorda che il malcontento pubblico e i disordini sociali sono stati alla base della rivoluzione del 2011.

Il debito della Tunisia, che importa metà del suo grano, sta esplodendo; le rivolte per la fame del 1983-1984 hanno lasciato il segno sui leader, che esitano ad abolire i sussidi. C’è la minaccia di una carestia mondiale che certamente provocherebbe un aumento della pressione migratoria: si parla di 400.000 arrivi in Italia; la Francia non fornisce cifre, ma sa che buona parte della gioventù nordafricana sogna di unirsi all’ex potenza coloniale (odiata almeno dagli algerini).

Non possiamo quindi che rallegrarci del fatto che l’Italia e il suo presidente del Consiglio Mario Draghi (subito seguito dal cancelliere Scholz e dal presidente Macron) abbiano rilanciato una strategia storica di compromesso geopolitico. L’idea registrata dai russi è quella di avviare un negoziato con Putin sulla base dell’urgenza condivisa (russi inclusi) dell’approvvigionamento di derrate alimentari: probabilmente lo sblocco dei porti del Mar Nero e una scorta navale sotto controllo russo in cambio di un alleggerimento delle relative sanzioni. Insomma, dall’accordo sul grano all’accordo di pace. E forse, un giorno, sulla ricostruzione.

Michel Korinman (collectif Outre-Terre)


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