Il ministro delle Finanze ungherese, Varga, durante la riunione dei ministri economici e finanziari dell’Ue, ha mantenuto il veto sulla tassa sulle multinazionali. Occorre chiedersi quanto l’Unione europea potrà fare progressi mantenendo il voto all’unanimità per tutte le materie sensibili…
La riunione dei ministri economici e finanziari dell’Unione europea (convenzionalmente chiamata Ecofin) era l’ultima prima del Consiglio Europeo (dei Capi di Stato e di governo dei 27) in calendario per il 23 e per il 24 giugno. Si presentava con ordine del giorno molto denso: completamento dell’unione bancaria (un argomento in attesa da anni), primi passi verso un’unione europea dei capitali (altro tema all’ordine del giorno da circa due lustri), chiusura di alcune procedure d’infrazione e, soprattutto, un accordo sull’attuazione di uno dei due aspetti chiave delle intese internazionali sulla tassazione, in particolare sulla tassazione minima delle multinazionali, nell’ambito degli accordi raggiunti a livello politico con G20 e Ocse.
È su questo punto (ultimo in ordine di presentazione, anche per puri motivi cronologici), che la piccola Ungheria (una popolazione inferiore a quella della Lombardia) ha fatto saltare il banco, opponendosi alla misura che richiedeva (come quasi tutte le decisioni di effettivo rilievo dell’Ue) l’unanimità.
La Francia (che sino alla fine di questo mese presiede gli organi dell’Ue) ha insistito perché si raggiungesse almeno un accordo. Intervenendo sulla tassazione minima delle multinazionali, il ministro delle Finanze ungherese, Mihály Varga, ha mantenuto il veto sostenendo che gli sviluppi negativi dell’economia, collegati anche a guerra in Ucraina, rincari di energia e matterie prime, assieme alle strozzature delle catene globali, rendono inopportuno “affrettare” queste misure. Ha anche sostenuto che al Parlamento ungherese “aumentano le voci critiche contro questo accordo. Introdurre così presto l’accordo causerebbe gravi danni – ha detto Varga -. Il lavoro non è pronto e penso che dobbiamo continuare gli sforzi per trovare una soluzione”. Quindi, ha lasciato la porta socchiusa, al fine verosimilmente per utilizzarla come merce di scambio su altri temi (varie procedure d’infrazione, rapporti con la Federazione Russa, embargo nei confronti del petrolio russo) con cui è in difficoltà con gli altri partner dell’Ue.
Il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, che presiedeva la riunione dell’Ecofin, ha puntato il dito contro il fatto che l’Ungheria aveva espresso parere favorevole a procedere su “Pillar 2”, questa parte di accordo Ocse, anche dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Fino a poche settimane fa ad opporsi era infatti solo la Polonia, almeno apparentemente, ma questo veto sembrava esser stato superato da nuove proposte della Commissione europea, su cui Le Maire ha ringraziato il commissario all’Economia, Paolo Gentiloni.
Il nodo dell’opposizione dell’Ungheria alla tassazione ha fatto sì che anche sugli altri temi (tranne quelli puramente amministrativi come la conclusione di alcune procedure d’infrazione nei confronti di alcuni Stati membri (Cipro, Irlanda, Slovenia) si facesse poco progresso.
Per il completamento dell’unione bancaria si è stabilita una tabella di marcia che definisce le priorità e le tappe fondamentali per gli anni a venire in termini sia di condivisione e riduzione dei rischi nel settore bancario sia di risposta alle sfide ancora da affrontare. Si è definito il futuro ordine dei lavori in tema di un sistema europeo di assicurazione dei depositi (Edis); un sostegno comune al fondo di risoluzione unico; regolamentazioni bancarie volte a ridurre i rischi. Sono state, anche, approvate le raccomandazioni specifiche per Paese rivolte agli Stati membri riguardo alle loro politiche economiche e di bilancio ed un progetto di norme sui fondi comuni monetari, volto a rendere più solidi tali prodotti. C’è stata, ovviamente, una discussione generale sulla situazione economica e le sue prospettive.
Tutto sommato un risultato deludente anche in quanto la pietanza forte e più succulenta è stata tolta dal menu prima che la si potesse assaggiare.
Occorre chiedersi quanto l’Ue potrà fare progressi finché si prevede il “voto all’unanimità” (fortemente voluto, all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, dalla Francia per proteggere la propria politica agricola) per tutte le materie considerate “sensibili”. In un’Ue a Sei o a Undici era più facile trovare intese che in una a Ventisette, soprattutto se uno o più partner considerano lo strumento come un mezzo per raggiungere fini differenti da quelli direttamente in discussione.
La tensione tra voto all’unanimità e a maggioranza qualificata segna tutto il cammino del processo di integrazione. Se si toglie l’unanimità in certi campi, bisogna necessariamente garantire una partecipazione maggiore del Parlamento europeo nel processo decisionale e consentire un maggiore coinvolgimento dell’istituzione rappresentativa dei cittadini dell’Ue in temi come sicurezza comune e politica estera. Il passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata richiederebbe una riforma dei Trattati e, quindi, il consenso di tutti i 27 Stati membri. Vero che il Trattato sull’Unione europea già contiene una “clausola passerella”: il Consiglio europeo può autorizzare il Consiglio dell’Unione europea a intervenire adottando atti, anziché all’unanimità, con maggioranza qualificata. Ma c’è comunque bisogno dell’unanimità del Consiglio europeo per avallare tale “passaggio”, e questa clausola non può essere comunque utilizzata per le decisioni “che hanno implicazioni militari o che rientrano nel settore della difesa” .
L’alternativa è andare verso “accordi intergovernativi” tra un numero più o meno limitato di partecipanti, come quelli di Schengen (per la libera circolazione) o quello di Maastricht (per l’unione monetaria).
Non si può più eludere il problema.