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Benefit revolution. L’Italia alla prova di Larry Fink

Sul modello della benefit corporation statunitense, la normativa italiana ha ormai aperto la strada alle società benefit, una “terza vita” del capitalismo che in Italia ha trovato sempre più spazio dopo la pandemia. La riflessione di Riccardo Gotti Tedeschi

Sulle orme della benefit corporation statunitense, la società benefit sta accelerando il proprio grado di appeal sul mercato italiano, rappresentando la “terza via” tra la società di capitali e l’impresa sociale, affiancando così allo schema classico dello scopo di lucro (o mutualistico) tipico del fenomeno societario, lo scopo di “generale utilità”.

La Sb è quella società di persone o di capitali che, pur mantenendo la finalità di generare utili e distribuire dividendi nell’esercizio di un’attività economica, aggiunge finalità di beneficio comune e opera “in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse”. Il beneficio comune, incorporato nell’oggetto sociale, si sostanzia nel “perseguimento di uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi” nei confronti della collettività circostante (gli stakeholder sopra citati).

La novità è almeno in partenza di notevole rilievo. La normativa italiana (un disegno di legge del 2015 poi confluito nella legge di stabilità 2016) è stata sviluppata da un team internazionale di giuristi e imprenditori che ha preso a modello la disciplina della benefit corporation statunitense (poi introdotta anche in Colombia e Porto Rico nel 2018, Ecuador e Canada–British Columbia nel 2019, Perù nel 2020 e Ruanda nel 2021) ma che dalla stessa si è distanziata creando una nuova forma giuridica (la SB), cosa ben diversa dalla B-corp che è invece una certificazione di eccellenza che viene rilasciata, su richiesta volontaria, da un’agenzia terza.

La finalità di beneficio comune intende misurare il valore sociale generabile dall’attività d’impresa in una sfera di pubblico interesse, e coniugarlo con il mantenimento di risultati economici evidentemente positivi.

Stiamo parlando di uno strumento – come tale neutrale, giacché la reale utilità si può misurare dall’effettiva realizzazione del beneficio comune unitamente al profitto e alla distribuzione di utili, non dimentichiamolo – che crea una solida base per l’allineamento della mission della società nel lungo termine e la creazione di valore condiviso.

Il beneficio comune consente quindi di proteggere la missione in caso di aumenti di capitale e cambi nella governance, di creare maggiore flessibilità nel valutare i potenziali di vendita e di mantenere la missione anche in caso di passaggi generazionali o quotazione in borsa. Non scordiamo che non si tratta di imprese sociali o di una evoluzione del no-profit, ma di una trasformazione positiva dei modelli dominanti di impresa a scopo di lucro, per renderli più adeguati alle sfide e alle opportunità dei mercati del XXI secolo.

Del resto, il rapporto impresa/comunità in Italia non è affatto nuovo: il prof. Giulio Sapelli vi ha dedicato e vi dedica tuttora energie e passione costanti, e nella storia del capitalismo italiano abbiamo avuto esempi virtuosi di stakeholder capitalism come Adriano Olivetti, ma anche un ampio dibattito sulla qualifica di “etico” accostato allo strumento impresa. Si pensi tra gli altri alla critica di Carlo De Matteo che stigmatizza la deriva etica del movimento di comunità “olivettiano”, che si sarebbe dato fini che trascendevano la dimensione produttiva, creando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe avuto bisogno di essere buono, con la conseguenza di eliminare la persona e la sua irriducibilità come unico soggetto valoriale e quindi l’impresa come esito operativo e dinamico di persone che si rapportano e operano.

La novità della Sb va incardinata in un quadro regolatorio estremamente variegato, ma soprattutto dentro la crescente e pervasiva applicazione dei principi Esg. La Sbn può considerarsi un’evoluzione della RSI (responsabilità sociale d’impresa), una forma di responsabilità su base volontaria, promossa e riconosciuta a livello di diritto comunitario nell’ultimo decennio e in continua evoluzione, volta a integrare diverse istanze ed interessi che abbiano una dimensione pubblica (sociale, ambientale, culturale, ecc.).

Unitamente alla volontarietà, la legge prescrive l’obbligo di rendere trasparente il perseguimento dello scopo di beneficio comune: a tal fine la Sb deve prevedere all’interno della struttura societaria un responsabile d’impatto al quale affidare le funzioni di monitoraggio e verifica circa l’effettiva realizzazione del fine di beneficio comune. Correlato a ciò, la SB deve altresì redigere una relazione annuale (i.e. la relazione d’impatto) che sarà allegata al bilancio di esercizio e pubblicata sul sito aziendale.

Vale la pena riprendere quanto recentemente ribadito dal fondatore e ad di Blackrock, Larry Fink nella lettera ai Ceo’s delle società in portafoglio: l’impatto delle imprese sul tessuto sociale non deve soltanto essere un aspetto da considerare nel business plan, ma anche costituire un elemento reputazionale dell’azienda stessa. Un’azienda non è un soggetto isolato, ma fa parte di una comunità e solo tenendo in considerazione e avendo a cuore questa comunità potrà portare valore anche agli azionisti.

Considerando i cambiamenti repentini e distruttivi provocati da un lato dalla pandemia, dall’altro dall’evoluzione tecnologica, unite alle esigenze ambientali, per i Ceo non è mai stato così essenziale come oggi, dice Fink, avere una voce consistente, uno scopo chiaro, una strategia coerente e una visione di lungo termine. Essere cioè una “stella polare in una società in tumulto”. Fink puntualizza tuttavia che la ricerca del profitto resta il primo obiettivo dell’azienda, e sul punto tuttavia non fornisce una spiegazione in ordine a che fare nel momento in cui lo scopo di lucro e l’impatto dell’azienda nella società vanno in conflitto.

Vista l’accelerazione di costituzione di SB nell’ultimo anno (ad oggi in Italia, poco più di un migliaio), è evidente che l’attenzione alla sostenibilità da parte delle imprese è marcata e costante, con effetti diretti sul tessuto produttivo, sullasupply chain ed auspicabilmente sul tessuto sociale.

Notiamo come il nuovo paradigma miri a coniugare le esigenze di crescita economica con quelle di sviluppo umano e sociale, di qualità della vita e di salvaguardia del creato secondo un’ottica di benessere di lungo periodo.

Ma occorre fare chiarezza sul percorso intrapreso: dietro il termine sostenibilità possono nascondersi insidie ideologiche pericolose e non ancora sopite, che affondano le radici in un ecologismo critico e disfattista fondato su un’idea di ambientalismo/religione che ha le proprie radici nel ’68 e si fonda su una visione avversa all’impresa, alla crescita (la cd. “decrescita felice”) e soprattutto all’uomo (“cancro del pianeta”) senza tener conto delle esigenze sociali ed economiche delle persone, né di un ordine di natura.

Pensiamo alla forte influenza espressa alla fine degli anni 60’ dal Club di Roma, segnata da previsioni catastrofiche (poi non verificatesi) circa l’andamento del pianeta nonché da proposte di politiche economiche e sociali neomalthusiane che hanno concorso a ispirare i presupposti culturali di un drastico calo demografico nel mondo occidentale. Per misurare l’impatto occorrerà tempo e realismo. Tempo per valutare chi e in che misura adotterà questo nuovo paradigma. Realismo, per capire quanto veritiero ed effettivo sarà su larga scala il connubio profitto-beneficio comune.

 

 



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