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La Great Resignation in Italia non è così great. Lo studio Brunetta-Tiraboschi

Di Renato Brunetta e Michele Tiraboschi

Il fenomeno delle “Grandi Dimissioni” è più una redistribuzione: non persone che lasciano il mondo del lavoro, ma che cambiano impiego. Molte delle dimissioni del 2021 erano rimandate, per via del congelamento del mercato nel 2020. Il vero problema è il mismatch tra quello che serve alle imprese (e alla PA) e quello che insegnano scuole e università

Pubblichiamo un estratto del working paper Grande dimissione: fuga dal lavoro o narrazione emotiva? Qualche riflessione su letteratura, dati e tendenze, di Renato Brunetta (Ministro per la Pubblica amministrazione) e Michele Tiraboschi (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia), distribuito da Adapt University Press. Il testo integrale si può trovare qui

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Di “grandi dimissioni” si è fin da subito parlato anche in Italia, non senza confuse sovrapposizioni tra questo ipotetico fenomeno e altri, di ben più lunga data, legati al cronico disallineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro. È innanzitutto necessario analizzare i dati per poter inquadrare il tema, cercando di cogliere se e quale forma e dimensione abbia preso nel nostro Paese. La recente diffusione dei numeri delle Comunicazioni obbligatorie riferite all’anno 2021 (i più recenti a disposizione) ci vengono in aiuto.

Nel 2021 il numero dei lavoratori che si sono dimessi era superiore di 205mila unità rispetto al 2019, considerando il 2020 un anno anomalo per i noti motivi che hanno spinto i lavoratori a congelare eventuali dimissioni. Una crescita quindi dell’11,6 per cento a fronte di un calo, verificatosi appunto nel 2020, del 14,9 per cento. Si tratta di un andamento che non può certo essere ignorato ma che, allo stesso tempo, non sembra tale da poter giustificare una narrazione che dipinge come nuovo trend del mondo del lavoro quello delle dimissioni come modalità usuale di movimento all’interno del mercato del lavoro italiano.

Il fatto che il numero dei dimessi nel 2020 sia stato di 273mila in meno rispetto al 2019 e che la crescita nel 2021 (rispetto al 2019) sia, appunto, di 205mila unità, potrebbe suggerire (ma ci sarà modo in futuro di verificarlo) che molte delle dimissioni dello scorso anno si concentrino in “dimissioni rimandate”. Rimandate rispetto ad un anno, il 2020, nel quale i diversi lockdown hanno sostanzialmente congelato il mercato del lavoro sia dal punto di vista dell’andamento della domanda, sia da quello normativo, con il blocco dei licenziamenti in vigore per la quasi totalità dell’anno. Su questo aspetto si muovono anche, ad esempio, i risultati di una recente analisi del Censis che mostrano una propensione non molto elevata dei lavoratori italiani al cambio di lavoro, soprattutto se si esclude la fascia più giovanile (12). Sul tema sono già state proposte alcune prime analisi concentrate sui dati dei primi trimestri del 2021 che pongono diversi dubbi su una narrazione “romantica” delle dimissioni in Italia (13).

La stessa Relazione 2021 della Banca d’Italia (14) registra come l’aumento significativo delle dimissioni nel 2021 (400.000 in più rispetto al 2020) presenti caratteristiche diverse da quelle osservate negli Stati Uniti e nel Regno Unito e come abbia pienamente compensato il forte calo dell’anno precedente (-200.000), quando molte cessazioni sono state probabilmente rimandate a seguito della crisi pandemica. La Relazione segnala che «la maggior parte di questi eventi è avvenuta a seguito di cambi d’impiego all’interno dello stesso settore, senza causare significativi flussi di ricollocazione dei lavoratori al di fuori del comparto di appartenenza».

Anche la quota di imprese che segnalano difficoltà a reperire manodopera, soprattutto nei servizi e nelle costruzioni (al 7 e al 6 per cento, rispettivamente) è sì salita progressivamente nel 2021 a fronte della rapida ripresa della domanda di lavoro, ma l’incremento è stato molto minore di quello registrato nella media dell’area euro (17 e 22 per cento). Nei primi quattro mesi del 2022, inoltre, la quota si è stabilizzata in tutti i settori su valori in linea con quelli passati. L’analisi della distribuzione settoriale delle dimissioni volontarie è, effettivamente, un elemento importante da considerare.

Le dimissioni sono cresciute del 52 per cento nel settore delle costruzioni che, come è noto, è fortemente interessato da una notevole dinamicità della domanda di lavoro, risultante dalla presenza dei diversi incentivi e bonus che hanno moltiplicato il numero dei cantieri e, con essi, la ricerca dei lavoratori. Se poi si volesse provare a sostenere che la dinamica di aumento delle dimissioni sia in parte concentrata in quei settori nei quali si denuncia la fatica di trovare lavoratori, come quelli dell’alloggio e della ristorazione, si scopre che qui le dimissioni non solo non sono aumentate ma sono perfino diminuite del 2 per cento.

Un dato che dovrebbe far riflettere sulla distanza tra questi due fenomeni, uno più nuovo e uno più cronico ma che, al momento, non sembrerebbero particolarmente interrelati. A questo proposito, è possibile sottolineare come i settori del turismo e della ristorazione del nostro Paese soffrano in maniera piuttosto accentuata della difficoltà di reperimento di forza lavoro (camerieri, personale di sala, chef) in particolare per via di criticità strutturali in tema di mismatch che la pandemia ha inasprito. Un secondo elemento di particolare interesse, sebbene elaborato a partire da dati sui primi mesi del 2021, è quello che riguarda l’analisi longitudinale dei percorsi di carriera di chi ha presentato le dimissioni. Secondo le elaborazioni di Banca d’Italia, infatti, emerge «che in un contesto di forte incertezza i lavoratori, più spesso che in passato, hanno verosimilmente rassegnato le dimissioni solo a fronte della prospettiva di un nuovo impiego» (15).

Dimissioni quindi effettivamente presentate nel momento in cui vi era una ragionevole certezza di un posto di lavoro diverso (ritenuto per varie ragioni migliore) e non una dimissione come gesto liberatorio e salto nel vuoto, preferito al continuare un lavoro che non soddisfa. Come abbiamo visto, questa dinamica sembra riscontrata anche nelle più recenti analisi americane, e risponde oltretutto, nel caso italiano, a una struttura del mercato del lavoro che ha sicuramente maggiori rigidità in ingresso, uno scarso funzionamento dei sistemi di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, oltre che caratterizzata da una scarsa propensione alla mobilità dei lavoratori, con una conseguente riduzione delle possibilità di lavoro.

Grandi dimissioni o transizioni occupazionali?

A ragione del fatto che è bene muoversi con piedi di piombo di fronte alle narrazioni che dicono di un automatismo tra le dimissioni e l’uscita definitiva dal mercato del lavoro, alcune ricostruzioni basate sui dati delle Comunicazioni obbligatorie per il 2021 già menzionate (16) mostrano come negli ultimi cinque anni il tasso di rioccupazione post-dimissioni (a una settimana, a un mese, a tre mesi) di coloro che hanno abbandonato volontariamente la propria occupazione abbia seguito un andamento positivo.

Se mettiamo a confronto l’anno 2019 con il 2021 è infatti possibile notare come, considerando il mese di novembre di entrambe le annate, il tasso di rioccupazione a una settimana dalle dimissioni sia passato dal 36 per cento al 40 per cento. Inoltre, allungando l’orizzonte temporale a un mese dall’abbandono dal precedente lavoro, la quota è passata dal 48 per cento nel 2019 al 52 per cento nel 2021. Considerando invece il tasso di rioccupazione a tre mesi, per i periodi di settembre 2019 e settembre 2021, la quota si conferma nel suo andamento positivo, passando dal 56 al 60 per cento nell’ultimo anno preso in considerazione.

Già da questa breve ricostruzione è quindi possibile riconoscere una certa fretta in chi parla di abbandono totale del sistema lavoro da parte dei dimissionari, poiché in molti casi si è trattato, invece, di una sempre più comune transizione occupazionale. Isolando alcune caratteristiche dei lavoratori, quali ad esempio il genere, emerge un certo squilibrio tra uomini e donne, con i primi in possesso di un tasso di rioccupazione a un mese strutturalmente più elevato di quello delle seconde di circa 10 punti percentuali.

Senza qui avventurarsi in rischiose comparazioni con contesti diversi da quello italiano, emerge ad ogni modo l’importanza di monitorare con particolare attenzione il tema della differenza di genere, particolarmente marcato nel nostro mercato del lavoro che storicamente penalizza la componente femminile, nell’ambito di fenomeni come quello in oggetto. Per quanto concerne invece il tema anagrafico, risulta come siano i lavoratori tra i 40 e i 49 anni ad essere i più “rioccupati”, con una media del 55 per cento, seguiti dalla fascia 30-39 anni, 15-29 anni e 50-64 anni. Alcune prime evidenze riportate dalle analisi qui riprese (17), che meritano tuttavia di essere monitorate per ulteriori conferme al riguardo, mostrano anche un aumento delle transizioni da un mestiere e da un ambito lavorativo all’altro già a fine 2020.

Dal punto di vista anagrafico la possibilità di cambio settore e professione decresce con l’aumento dell’età del lavoratore dimissionario. Provando a leggere in controluce le rilevazioni qui riportate è, quindi, possibile ipotizzare come i lavoratori più anziani abbiano tassi di rioccupazione più elevati, anche se nell’ambito dello stesso settore e professione del lavoro precedente, mentre i più giovani riscontrano livelli di rioccupazione inferiori ma sono maggiormente propensi a cambiare settore e/o professione.

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Per leggere il resto del working paper, cliccare qui

 

Note:

(12) Si veda il V Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale (marzo 2022).

(13) Si veda F. Armillei, Un primo identikit delle grandi dimissioni, in LaVoce.info, 2021, cui adde F. Armillei, Dove sono andati a finire i lavoratori che si sono dimessi?, in LaVoce.info, 2021.

(14) Banca d’Italia, Relazione annuale 2021, p. 105-106.

(15) Banca d’Italia, Ministero del lavoro, Il mercato del lavoro: dati e analisi. Le Comunicazioni obbligatorie, 2021, p. 4.

(16) F. Armillei, Un primo identikit delle grandi dimissioni, cit.; F. Armillei, Dove sono andati a finire i lavoratori che si sono dimessi?, cit.

(17) Ancora F. Armillei, Un primo identikit delle grandi dimissioni, cit.; F. Armillei, Dove sono andati a finire i lavoratori che si sono dimessi?, cit.

 

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