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L’inflazione e quel valzer dei tassi. Scrive Pennisi

La Federal Reserve ha aperto le danze delle strette sul costo del denaro. Ora le altre banche centrali si stanno muovendo, inclusa la Bce. Giuseppe Pennisi racconta la nuova stagione della politica monetaria

21 giugno, solstizio d’estate. A quella data, secondo FactSet, le autorità monetarie di 45 Paesi hanno aumentato, nelle ultime settimane, i tassi d’interesse. FactSet precisa che la cifra può essere approssimata per difetto in quanto non include piccoli Paesi non censiti dalla società. Il dato comunque conferma che l’era dei bassi tassi d’interesse, iniziata circa dieci anni fa (ed accompagnata, successivamente anche da “politiche monetarie non convenzionali» che complessivamente hanno preso il nome di Quantitative Easing“) è terminata. Forse, per diversi anni.

A porle fine è stata un’ondata d’inflazione che in una prima fase le autorità monetarie e numerosi economisti (tra cui anche ci scrive questa nota) avevano giudicato di breve periodo in quanto relativa ad alcuni comparti merceologici e innescata da politiche monetarie e di bilancio espansioniste messe in atto per contenere gli effetti economici della pandemia. Non solo la pandemia è durata, o meglio sta durando (siamo alle prese con una nuova variante e, quindi, con una nuova ondata), ma il 24 febbraio la Federazione Russa ha aggredito l’Ucraina, mettendo a repentaglio le tradizionali linee di trasporto, approvvigionamento e comunicazione, provocando aumenti dei prezzi di materie prime, e causando anche la perdita di una delle maggiori fonti di produzione e esportazione di cereali, con gravi danni per i Paesi in via di sviluppo.

L’inflazione (che viaggia a tassi annui sul 7,7% negli Usa e sul 6,8% nell’Unione europea, Ue, e che in Turchia supera il 60%) è ormai entrata nelle aspettative: i governi studiano il blocco dei prezzi per i prodotti più sensibili e misure per alleviarne il peso sulle fasce di reddito più bassi, i sindacati rivendicano nuovi contratti collettivi di lavoro, e così via. La spirale pare innescata. In un momento in cui le politiche di bilancio hanno poche frecce nei loro archi in quanto manovre di bilancio restrittive cozzerebbero con le esigenze di fare fronte alle ferite (e non solo) della pandemia ed della guerra in Europa orientale, L’onere è, quindi, in gran misura, sulle politiche monetarie.

Le autoritarie monetarie americane hanno aperto la danza, forse con un rialzo dei tassi troppo brusco (tre quarti di un punto percentuale) accompagnato dall’annuncio della trasformazione del Quantitative Easing in Quantitative Tighnening, ossia misure di “politiche monetaria non convenzionale” per ridurre la liquidità in circolazione nell’economia. All’aumento dei tassi della settimana scorsa (tre quarti di un punto percentuale) si è opposta unicamente la presidente della Banca Federale di Riserva del Kansas, Esther George, precisando che era d’accordo con la svolta di politica monetaria ma che riteneva preferibile un approccio più graduale (mezzo punto percentuale non tre quarti). Secondo quel che si dice a Washington, nei prossimi mesi le autorità monetarie americane intendono proseguire sulla stessa strada: a fine l’interbancario (che il tasso di riferimento negli Usa) sarà 3.5% rispetto a 1,75% adesso e 0,25% all’inizio del 2022.

Eppure, gli Stati Uniti sembrano essere il Paese dove, dopo una prima forte ventata, l’inflazione manda segnali secondo cui si starebbe calmierando quasi da sola. Ci sono suggerimenti, non ancora indicazioni vere e proprie, che vengono dal mercato finanziario (il rapporto tra i prezzi delle azioni e quelli delle obbligazioni), dal mercato immobiliare (valore dei mutui, abitazioni posto sul mercato), dall’occupazione (il tasso di disoccupazione è solo pari al 3,6% della forza lavoro). Il presidente della Federal Reserve Jerome Powell, ad ogni occasione, dichiara di “non voler causare una recessione”. Probabilmente spera di calmare l’inflazione con pochi colpi ma duri.

Differente il caso dell’unione monetaria europea dove sono state sospese misure sui tassi (ma forse solo per qualche settimana). All’ultimo Consiglio, il 9 giugno, la Bce ha lasciato, come previsto, i tassi d’interesse fermi: il tasso principale resta a zero, il tasso sui depositi a -0,50% e il tasso sui prestiti marginali a 0,25%, ma “intende alzare i tassi d’interesse di 25 punti base alla riunione del Consiglio di luglio” e “si aspetta di alzare nuovamente i tassi a settembre”.

Dopo settembre “ci si attende che un ritmo graduale, ma sostenuto, di ulteriori aumenti se sarà appropriato”. Misure che sembrano improntate al più rigoroso gradualismo ma che hanno fatto schizzare immediatamente lo spread tra i buoni del Tesoro decennale dei Paesi con più alto debito della pubblica amministrazione rispetto al Pil e che più avevano usufruito di “politiche monetarie non convenzionali” tanto che è stato, dopo pochi giorni, riunito il Consiglio Bce e messo allo studio uno strumento per difendere i Paesi fragili da balzi dello spread. Eppure, è proprio nell’Ue che vengono segnali di un’inflazione pesante e resiliente.


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