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Perché in Italia non nascono unicorni?

Di Roberto Macina
unicorno

Gli unicorni sono startup che riescono a superare la valutazione di un miliardo di dollari. Gli unici “apparsi” in Italia sono già stati venduti a gruppi stranieri. Ecco cosa manca per far sviluppare, nel nostro Paese, un ecosistema in cui far prosperare idee innovative. Le ricette di Roberto Macina, Managing Partner & Co-Founder Wda

È tutta (o quasi) una questione di ecosistema.

Con il termine “unicorno” si identifica un’azienda che raggiunge il valore di un miliardo di dollari, un traguardo che sembra simbolico, ma è l’aspirazione sia per i fondatori che per gli investitori che credono in una startup.

A dicembre 2021, il numero di startup in vari paesi con una valutazione maggiore a 10 miliardi era pari a 35. Tra queste ci sono ByteDance, Stripe e SpaceX. Purtroppo il numero in Italia è molto più basso. Recentemente, Scalapay ha acquisito un valore che va oltre il miliardo ed è diventato il terzo unicorno italiano, dopo Depop e Yoox, entrambe già cedute a società straniere.

Una startup che nasce in Italia, fondata da imprenditori italiani, cresciuta nel territorio italiano è diversa – e vedremo il perché – da una che compie lo stesso percorso in altre parti di Europa o negli Stati Uniti. Diverse sono le regolamentazioni, l’ambiente finanziario, quello amministrativo e anche culturale ovvero il cosiddetto environment.

In Italia l’ecosistema startup è cresciuto tantissimo negli ultimi 10 anni (alla fine del terzo trimestre del 2021, il numero di startup innovative è pari a 14.032 contro le 1.719 del 2014) ma nonostante questo, non è ancora florido come in altre parti del mondo in termini di numeri.

Dunque si deve distinguere tra startup lanciate da italiani ma poi “emigrate”, che a volte sono quelle osannate, e startup nate e anche cresciute nell’ecosistema nostrano. In Italia, infatti, molti fondatori ad un certo punto si sono spostati e hanno deciso di impiantare le loro startup in ecosistemi molto più dinamici, negli Usa o nel Regno Unito, per esempio. L’idea richiede un ambiente costantemente favorevole sia in termini di raccolta capitali che in termine di facilità di entrata nel mercato.

Certo, c’è l’Europa, il mercato europeo. Più in teoria che in pratica, però. Per una startup che nasce in Italia, Germania, Francia o Portogallo uscire dai confini nazionali per entrare in quelli più larghi dell’Europa significa fare i conti con una serie di ostacoli, da quelli normativi per finire a quelli linguistici. Non è così negli Stati Uniti dove il mercato di riferimento è quello dei 50 Stati americani: parli la stessa lingua; le regole sono le stesse; c’è un ecosistema più ricettivo. Invece se fai partire la tua startup in Italia e poi vuoi andare in Francia finirai per dover affrontare il problema della lingua e poi ancora quello di burocrazie diverse, e via dicendo, mancando l’obiettivo primario di un startup, la velocità di esecuzione.

Sono tutte barriere altissime a causa di usi e costumi diversi. Per una startup, insomma, è molto più facile “scalare”, cioè crescere di dimensioni, in America rispetto ad una startup che nasce in Europa. Altro problema sono gli “strumenti” che uno ha a disposizione per affrontare e scalare il mercato. In Italia, a discapito di tantissimo talento, c’è decisamente meno finanziamento nella fase del decollo rispetto a quel che accade non solo nel mondo anglosassone, ma anche in Francia, Germania, Spagna.

In Italia, nel 2021 si contano investimenti in startup pari a 1,46 miliardi di euro. Possono sembrare tanti in valore assoluto ma se confrontati con i nostri cugini “europei”, sono davvero pochi. Gli esempi sono paesi come Regno Unito (12,5 miliardi); Germania (5,3); Francia (5,1); senza scomodare gli Stati Uniti (25) o Israele (25). C’è una propensione degli investitori italiani, definiti early-stage (ovvero che investono nella prima fase di vita di un’azienda) a iniettare “poco capitale”, a fronte di quello veramente necessario se si vuole aggredire il mercato velocemente, su startup che sono uscite dalla fase di ideazione o prototipo.  Questo certamente rallenta la scalabilità delle startup italiane nel mercato locale e quindi di conseguenza a livello internazionale.

Va detto che durante la pandemia provocata dal Covid-19 si sono fatti ulteriori passi in avanti soprattutto in termini di educazione digital e quindi la possibilità di aggiungere utenti più rapidamente. Tuttavia questo non ha cambiato le modalità di investimento sulle startup: le risorse finanziarie restano concentrate sulla fase di crescita, quando il rischio di fallimento si abbatte, questo spiega anche l’alto tasso di mortalità delle startup nella fase iniziale che devono iniziare un viaggio molto lungo e pieno di insidie con poco carburante.

In questo contesto ci sono anche le corporate, le aziende tradizionali, che utilizzano le soluzioni realizzate dalle startup, cosa che sicuramente aiuta la diffusione di molte soluzioni ideate dalle nostre startup, ma è ancora troppo poco se vogliamo competere anche solo con i paesi limitrofi o se vogliamo puntare sull’avere sempre più unicorni italiani.

Sitografia:

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