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Libia e Isis. Cronistoria di una guerra mai finita

Di Dario Cristiani

Non c’è solo la crisi politica e lo spettro di una divisione del Paese a tormentare il sonno della Libia. A Sud l’armata di Haftar reincontra e fronteggia una vecchia conoscenza: l’Isis c’è e non se ne è mai andato. L’analisi di Dario Cristiani, Iai/Gmf fellow

Gli scontri armati che hanno accompagnato il 17 maggio il fallito tentativo del primo ministro designato del Governo di Salvezza Nazionale (Gns), Fathi Bashagha, supportato dalle forze dell’est di Khalifa Haftar a Aguila Saleh, di installarsi a Tripoli in vece dell’attuale primo ministro, Abdel Hamid Dbeibah e del suo Governo di Unità Nazionale (Gnu) suggeriscono che la situazione in Libia continua ad essere caratterizzata da una sorta di pericolosità latente che può trasformare la polarizzazione politica e la crescenti frizioni tra le varie fazioni in una nuova guerra civile in tempi relativamente brevi. Da questo punto di vista, però, le frizioni politiche e gli scontri tra milizie non sono gli unici elementi da monitorare.

Alla fine di maggio, le forze dell’Esercito nazionale libico/Forze armate libico arabe (Lna/Laaf) di Haftar hanno mostrato la volontà di muoversi in maniera più decisa nel sud del Paese. Il portavoce del comando generale Lna/Laaf, il maggiore generale Ahmed al-Mismari, ha annunciato l’avvio di vaste operazioni per proteggere il confine con il Ciad, dove vi sono stati vari scontri armati nelle ultime settimane. Inoltre, nel sud della Libia, le forze di Haftar sono impegnate già da qualche mese in operazioni contro lo Stato Islamico (Isis per come è comunemente conosciuto in Italia).

Nel 2014, allora in rapida ascesa a livello globale, trovò in Libia terreno fertile per rafforzare la propria presenza, in particolare a Sirte. In ciò, il gruppo fu favorito dalla crescente polarizzazione che stava emergendo in Libia in quegli anni, polarizzazione che si cristallizzò con la nascita del Governo dell’Accordo nazionale, guidato da Fayez al-Sarraj, alla fine del 2015. Due governi, supportarti da diverse forze straniere, una duplicazione di tutte le principali istituzioni e, dal 2016, anche due monete diverse, visto che i dinari usati nell’est venivano stampati in Russia mentre quelli usati nell’ovest erano prodotti in Gran Bretagna.

Lo Stato Islamico in Libia conobbe il suo picco tra il 2015 e il 2016. Sebbene Haftar abbia, per anni, giustificato le sue azioni e la sua presenza rispetto alla lotta contro le forze radicali islamiste, nel caso dell’Isis furono altri gruppi, in particolare quelli di Misurata, con il supporto aereo degli americani, a combattere la presenza del gruppo.

Isis perse la propria roccaforte a Sirte alla fine del 2016, e i combattenti ancora affiliati all’organizzazione si dispersero nel resto del territorio libico e nei paesi confinanti. Dalla fine del 2017, alcuni di questi militanti si riorganizzarono nel deserto del sud in piccole unità mobili, chiamate “battaglioni del deserto” (Saraya al-Sahraa), con cui lanciavano attacchi estemporanei ma non per questo poco significativi in varie parti del paese.

Questa riorganizzazione portò il gruppo a crescere nuovamente fino a quando, nel settembre 2019, tre attacchi aerei organizzati da Africom nel sud della Libia distrussero molte di queste unità. Da allora, per almeno un anno e mezzo, Isis in Libia è rimasta per lo più silente, prima di riapparire con una serie di attacchi sporadici nel 2021.

Nel giugno 2021, un camion è esploso a un posto di blocco di Mazig a nord di Sabha, uccidendo almeno due persone, incluso un alto ufficiale di polizia, e ferendone altre quattro, tutte collegate alle forze di Haftar. ISIS rivendicò l’attacco stesso quel giorno, tramite l’agenzia di stampa Amaq, pubblicano foto e filmati dell’autobomba usata contro il checkpoint di sicurezza e dell’attentatore suicida, il cui nome era Mohammed Al-Muhajer.

Nei mesi successivi, tale copione si è ripetuto con attacchi piccoli ma costanti. Le forze di Haftar motivato il lancio di una rinnovata campagna militare nel sud come modo per contenere questi attacchi. Sebbene tale ritorno non vada sottovalutato, l’idea che Isis possa tornare – nel breve periodo – a essere forte come nel 2014 o anche solo capace di infliggere danni significativi, come nel 2018 con attacchi “hit and run” di vario genere, sembra essere di difficile realizzazione.

Nel lungo periodo, la questione è diversa, nel senso che Isis ambisce a mantenere una presenza anche minima nei territori in cui opera storicamente esattamente per riprovare, in tempi più lunghi, a ritornare ad essere un attore significativo. Questa è esattamente una fase di timido ritorno dopo quasi due anni di totale silenzio. Agli inizi del 2017, il gruppo venne dato per finito in Libia. L’anno dopo, invece, si mostrò capace di fare danni anche senza essere una minaccia sistemica. Tale passaggio non va dimenticato.

In un’ottica più ampia, è interessante notare che – rispetto al sud della Libia – Haftar aveva fatto qualcosa di simile agli inizi del 2019: rafforzare la propria presenza in quelle zone prima di lanciare la sua operazione militare contro Tripoli nell’aprile dello stesso anno.

Per Haftar questo era un obiettivo di lungo periodo: anche in precedenza, prima del massacro di Brak al-Shati nel 2017 che avere respinto le sue forze nell’est, Haftar aveva provato a rafforzare la propria presenza nel sud. Siamo allo stesso punto? Non necessariamente, ma è un’evoluzione che chiaramente va monitorata e seguita, in particolar modo nell’ottica del rischio di una fase della guerra civile tra milizie fedeli al Gns e quelle legate al Gnu.

Lanciare un’operazione per controllare in maniera capillare il sud libico è esercizio destinato in genere al fallimento. Forze, in particolare esterne al territorio, posso stabilire una presenza, ma garantire un controllo univoco di tale spazio è difficile. Certamente, però, una presenza più marcata ed eventuali alleanze con gli attori storicamente presenti in questo territorio potrebbero aiutare Haftar e i suoi rispetto a un conflitto più ampio.

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