In Libia è ormai chiaro che serva una tera via tra Bashaga e Dabaiba. L’Italia è protagonista del dialogo diplomatico in corso, anche perché ha interessi a continuare la stabilizzazione del Paese
Lo stallo istituzionale in Libia continua, ed è oggettivo ormai che serva una spinta per poterlo risolvere, con una soluzione che diventa sempre più chiara: affidare l’incarico di costruire l’esecutivo a una figura terza che sia rappresentativa e garante dei due poli di potere presenti, che nel giro di un anno e mezzo superi le divisioni e porti al voto. Se il premier uscente, Abdelhamid Dabaiba, non si muove da Tripoli, e se quello incaricato, Fathi Bashaga, non vi sta entrando perché consapevole che farlo significherebbe aprire la via dello scontro fisico, dell’uso della forza e in definitiva della riapertura di una stagione violenta, allora è chiaro che serva una terza via per sbloccare un’empasse.
Attualmente Bashaga si è spostato con il suo governo potenziale da Tobruk — città che fa da sede al parlamento HoR che lo ha incaricato — a Sirte. L’installazione pseudo-operativa del primo ministro incaricato nella città costiera tra Est e Ovest libico è stata accompagnata da una riunione convocata dal presidente dell’assemblea parlamentare, Agila Saleh, che ha provato a chiamare tutte le istituzioni più importanti attorno a Bashaga, ma i leader di Banca centrale, Noc (la società petrolifera) e altri hanno preferito non esporsi e non spostarsi da Tripoli. Il parlamento sta cercando di approvare un bilancio al governo di Bashaga, ma attualmente non riesce a trovare una quadra, soprattuto perché manca il quorum tecnico per il voto. E un governo senza bilancio ha ben poco spazio.
Fondamentalmente si è tornati indietro a una situazione simile a quella del 2014, quando la Libia ha iniziato a essere divisa in due, con due esecutivi che guidavano due aree del Paese, Tripolitania e Cirenaica, mentre la terza regione, il Fezzan (per ampi tratti poco abitata) era una sorta di ibrido in cui la legge tribale veniva prima dello stato. C’è di nuovo un deficit di legittimità, aggravato dalla scadenza del 22 giugno, data oltre la quale decadrà il percorso onusiano che ha portato alla formazione del governo Dabaiba, e delle nomine istituzionali come quella del Consiglio presidenziale, attraverso il processo del Foro di dialogo libico.
Come accennato, per sbloccare l’empasse ci sono già attività politico-diplomatiche su cui anche l’Italia sta lavorando con Francia e Onu, attraverso un dialogo costante con il Consiglio presidenziale, che — consapevole della deadline in arrivo — potrebbe farsi carico del lancio della nuova roadmap libica. L’esecutivo terzo, secondo quanto emerge, dovrà essere ristretto nel numero dei ministri, ma molto ampio nella rappresentanza, in grado di essere sostanzialmente riconosciuto da tutte le anime del Paese e di assistere il Parlamento e l’Alto consiglio di stato nel redarre una costituzione. Da qui andare verso le elezioni, portando avanti gli affari correnti prima che la situazione frani in modo incontrollabile. Situazione che più dura e più lascia spazio per derive incontrollabili, moltiplicando rischi e minacce sulla sfera articolata della stabilità non solo libica, ma anche regionale.
In questo lavoro diplomatico, il cosiddetto “3+2” — composto da Italia, Francia, Germania, più Stati Uniti e Regno Unito — sta anche puntando ad allargare il dialogo a Turchia ed Egitto, che hanno in Libia parti delle proprie sfere di influenza e possono farsi garanti di interessi interni. Roma ha un ruolo di contatto centrale tra i tre mondi che costituiscono questo fronte diplomatico, quello europeo, quello transatlantico e quello regionale mediterraneo. Contemporaneamente ha interessi affinché questa stabilizzazione sia trattata con urgenza e priorità.
C’è lo scombussolamento del mercato energetico prodotto dalla guerra russa in Ucraina a cui la Libia potrebbe contribuire positivamente se le sue produzioni petrolifere non fossero ostaggio dello stallo istituzionale; c’è la sfera securitaria, con una nuova crisi che potrebbe inoltre produrre nuove ondate migratorie e aprire spazi a realtà come l’Is, che attende soltanto nuove stagioni di caos per spingere ancora la propria propaganda. I miliziani jihadisti che pervadono il Sahel sono ancora in Libia, pronti a riprendere il controllo di territorio se si creassero le giuste condizioni, e sappiamo che le cellule libiche sono stati incubatori per azioni contro l’Europa.