Nonostante il desiderio di commerciare con altri Paesi, la necessità di crescere sta trasformando Ulaanbaatar in un corridoio preferenziale tra Pechino e Mosca, che ne trarranno beneficio. Ecco come la Mongolia appalta la propria economia e potrebbe veder appassire la propria democrazia
La democratica Mongolia sta per diventare un anello cruciale nell’alleanza politica e commerciale tra Cina e Russia. Le ragioni sono strategiche e commerciali: il Paese basa la sua economia sulle esportazioni, specie quelle delle sue ingenti risorse minerarie, ma non ha sbocchi sul mare e deve necessariamente commerciare via terra coi suoi unici vicini. Che potranno trarre vantaggio dai potenziamenti infrastrutturali in arrivo.
Ad oggi la Mongolia condivide 13 porti commerciali con la Cina, verso cui esporta carbone, materiale ferroso e rame. Ma, spiega Foreign Policy, la rete di trasporti azzoppa le potenzialità commerciali di Ulaanbaatar. Il sistema ferroviario di epoca sovietica ha limiti evidenti e gran parte del commercio avviene sulle poche autostrade esistenti, costruite tra il 2016 e il 2020.
Tutto questo sta per cambiare: entro fine anno il Paese asiatico porterà a compimento tre importanti linee ferroviarie, destinate a potenziare il commercio di commodities, assieme a tre interconnessioni ferroviarie con la Cina. Queste dovrebbero far lievitare le esportazioni dai circa 8 miliardi di euro attuali (dati Oec) a 20 miliardi entro il 2029. Ma rinsalderebbero la dipendenza economica dalla Cina, che già nel decennio scorso assorbiva il 90% delle esportazioni mongole.
Tutto ciò sta avvenendo in diretta contraddizione con la volontà della Mongolia di diversificare i propri acquirenti. Una volontà che trova il suo riflesso geopolitico nella cosiddetta “politica estera del terzo vicino”, ossia il desiderio di potenziare i rapporti con Paesi che non siano la Russia o la Cina, le due superpotenze che da secoli esercitano la loro influenza sulla regione.
Dall’altra parte, però, c’è la questione della sopravvivenza economica. Il Paese, già svantaggiato dalla Storia e martoriato dalle crisi economiche, non può che usare la spinta delle materie prime per crescere e i canali commerciali cinesi per esportare anche a terzi. E deve anche proteggere la sua rilevanza come Paese di collegamento, per non vedersi chiudere i rubinetti degli investimenti che le servono per crescere.
Ulaanbaatar deve tener conto delle interconnessioni crescenti tra Cina e Russia, come il nuovo gasdotto Power of Siberia 2, che le uniscono direttamente. E deve assicurarsi che il concorrente geografico – il vicino Kazakhstan – non finisca per godere dei potenziali benefici che derivano dall’essere uno snodo cruciale per la Nuova Via della Seta, che vede nel collegamento mongolo una direttrice importantissima verso la Russia.
Dunque alla Mongolia non resta che accettare i fondi (con condizioni) cinesi per rafforzare i canali commerciali tra Cina e Russia, entrambe desiderose di poter contare su un corridoio commerciale efficiente lungo l’antica Via delle Steppe mongole. Un canale che le renderà più sicure energeticamente (aiutando la Russia a esportare più energia verso la Cina) e più agili nel commercio, più capaci di aggirare i canali commerciali sanzionabili.
Il Paese incastrato in mezzo potrà presto contare sui 13 miliardi all’anno (stime FP) che deriveranno dal vendere il carbone alla Cina. Posto che Pechino ha promesso di svezzarsi dal carbone, toccando il picco di emissioni nel 2025 e decarbonizzando poi, cosa che farà crollare la domanda di carbone nel mezzo degli anni Trenta. Un bel rischio per un’economia di mercato nata da poco, che ancora non ha potuto diversificare e forse non ne avrà mai l’opportunità.
Fa specie pensare che nel 2018 l’allora presidente mongolo Khaltmaa Battulga si appellò all’omologo statunitense Donald Trump, chiedendogli di rinsaldare i contatti commerciali e sottolineando che il ruolo della Mongolia come “oasi di democrazia” in una regione in cui l’autoritarismo è in crescita “non contribuisce allo sviluppo economico”. La prosperità cresce troppo lentamente, scrisse, “i cittadini mongoli sono scoraggiati dalla democrazia e hanno iniziato a dubitare della nostra scelta.”
La storia della Mongolia sembra una parabole perfetta per dimostrare le potenzialità appassite delle alternative occidentali alla Via della Seta – come il Global Gateway europeo o il Build Back Better World degli Stati Uniti, fornite di strategie di investimento virtuose per la democrazia ma arrivate troppo tardi, ancora troppo poco competitive. E nell’ottica di contenere le autocrazie, l’Occidente potrebbe ritrovarsi a pagare le sue disattenzioni geopolitiche.