Spread, rischio di stagflazione, frammentazione europea: è il momento di un’azione di politica economica che affianchi il Pnrr, ne metta in sicurezza gli obiettivi più importanti e complementi le misure di espansione della domanda con azioni immediate, e non protratte nel tempo, dal lato dell’offerta
La risposta europea alla crisi economica causata dalla pandemia nel 2020 si è articolata in quattro interventi distinti: misure anticrisi (con il meccanismo Sure), per un importo totale di 365 miliardi di euro, il piano di ripresa (Next Generation Eu), ossia 750 miliardi in 3 anni, il bilancio europeo (2021-2027), per un importo di 1,074 miliardi di e, all’interno di queste misure, la garanzia pubblica iniziale del piano di investimenti (InvestEU), ossia 26,2 miliardi, che dovrebbe portare a circa 400 miliardi di investimenti.
L’intervento pubblico complessivo raggiungerà così un totale di circa 2.800 miliardi di euro e il 24% del Pil europeo, una proporzione paragonabile a quella degli Stati Uniti. In Italia, il Next Generation dovrebbe avere risorse per circa 221 miliardi di euro, finanziati da fondi europei (circa 200 miliardi di prestiti, trasferimenti, Jtf e React-Eu) e in parte direttamente da stanziamenti di bilancio e, indirettamente, da ricorso al deficit.
Sia le vicende immediatamente successive al dispiegamento di questi interventi, sia l’imprevista guerra in Ucraina hanno reso manifesta la forte divergenza tra l’evoluzione dell’area europea e di quella statunitense, che si riverbera sul probabile impatto delle misure di politica economica attuali. Mentre la ripresa dopo le prime fasi della pandemia è parsa vigorosa su entrambi i fronti, infatti, l’economia Usa è stata subito caratterizzata da una impennata della domanda aggregata e della produzione e da un concomitante boom dell’occupazione.
Queste due componenti trovavano a loro volta difficoltà ad esprimersi perché la loro esuberanza, già agli inizi del 2021 sembrava compressa da strozzature dell’offerta dei paesi fornitori, inclusa, in particolare, la Cina, lungo catene del valore in molti casi compromesse dalla crisi suscitata dalla pandemia. In Europa, viceversa, la risposta dell’economia sembrava più contenuta, ma egualmente problematica per ragioni diverse, tra cui la divergenza tra le condizioni economiche e le diverse capacità di reazione tra paesi del nord e paesi del sud, e, all’interno di molti paesi, tra aree più sviluppate e meno sviluppate.
A dispetto della maggior enfasi delle politiche sociali, l’Europa presentava quindi una condizione più frastagliata dal punto di vista della capacità di recupero dei paesi di grado diverso di sviluppo, e con una tendenza maggiore all’incremento locale della povertà e del dumping sociale.
La combinazione pandemia-guerra ha cambiato il quadro economico internazionale. Ciò non solo per la importanza di variabili geopolitiche inizialmente presenti solo nel background dell’outbreak pandemico prima della invasione della Ucraina, ma anche e soprattutto per due fattori cruciali:
1) l’incertezza sulle motivazioni e gli obiettivi della Russia, alimentati da un risentimento storico che abbiamo già visto nel passato:
2) gli shock di offerta sulla energia, i materiali strategici e la produzione alimentare. L’impatto di questi fattori sulla economia mondiale sembra prefigurare una sorta di “tempesta perfetta”, in cui le tendenze inflazionistiche della liquidità fornita ai mercati per il finanziamento della ripresa si sommano alle strozzature delle catene del valore e all’aumento dei costi di produzione dell’energia e delle materie prime. Lo scenario che si profila è quindi quello di una stagflazione, con caratteristiche peggiori di quella sperimentata negli anni 70, e prospettive di collasso economico tanto più preoccupanti perché indefinite.
Il canale maggiore attraverso cui lo shock locale della guerra si propaga al resto del mondo è quello dell’economia reale, attraverso i costi delle materie prime e, soprattutto, dell’energia e dei prodotti alimentari, con un moltiplicatore elevato e di dimensioni incerte sulla economia finanziaria. La Russia e l’Ucraina sono al centro di una rete globale di relazioni commerciali di per sé non particolarmente estesa, ma in questo momento ancora cruciale per l’approvvigionamento energetico dell’Europa e a alimentare dell’Africa. Gli effetti di breve termine sono un incremento vertiginoso dei prezzi dell’energia e degli alimenti, ma quelli di più lungo termine si manifestano già con interruzioni e rotture delle catene del valore, e i tentativi di improvvisare circuiti più brevi di approvvigionamento alternativo, secondo logiche anti-globalistiche di autonomia nazionale.
Questi tentativi saranno probabilmente alla base di ulteriori incrementi di costo, di natura più strutturale, che faranno regredire, almeno in parte, le economie di scala ottenute con la moderna logistica e lo sviluppo dei sistemi di connessione internazionali per il trasporto dell’energia e degli alimenti. Siamo quindi di fronte a uno shock di offerta che però promette (o minaccia) un ulteriore, più durevole shock di offerta, con aumento strutturale dei costi per assorbire non solo gli effetti attuali della guerra, ma anche per ridurre l’impatto futuro di altre possibili pandemie e conflitti armati.
L’incremento strutturale dei costi di approvvigionamento energetico non è necessariamente una brutta notizia, poiché genera un movimento dei prezzi relativi che tende a riallineare gli incentivi privati con gli obiettivi sociali. Questi ultimi consistono nella riduzione progressiva dell’uso dei combustibili fossili e della loro sostituzione con fonti energetiche “pulite”, comprese le varie forme di energia rinnovabile e l’energia nucleare. Se il movimento verso l’alto dei prezzi del petrolio e del gas fosse e rimanesse un cambiamento “una tantum”, quindi, esso sarebbe simile all’effetto di una carbon tax, eccetto che per l’impatto distributivo, che in questo caso sarebbe interamente a favore dei paesi produttori.
Non sarebbe una forma di green inflation come è stato paventato, a meno che esse non alimentino aspettative di incrementi dei prezzi collegati. Ciò non vale tuttavia per i beni alimentari, né per le altre materie prime, i cui prezzi sono trascinati verso l’alto dall’effetto congiunto della riduzione dell’offerta e dall’incremento dei costi dell’’energia. L’economia del covid si è quindi trasformata in una economia di guerra, e il passaggio dalla brown alla green economy sembra marcato da una stagione che è stata caratterizzata come una di “red” economy. In queste condizioni il riallineamento, altrimenti accettabile dei prezzi dell’energia, presenta degli effetti estesi sugli altri prezzi che prevedibilmente alimenteranno inflazione e recessione, in altre parole, causeranno la tanta temuta stagflazione.
Secondo le stime dell’International Energy Agency, l’incremento dei prezzi dei prodotti energetici , che sta generando profitti senza precedenti per i produttori (il reddito netto per i produttori di petrolio e gas è proiettato per il 2022 a un livello doppio di quello del 2019 a circa 4mila miliardi di dollari), gli investimenti energetici mondiali aumenteranno di oltre l’8% nel 2022 per raggiungere un totale di 2400 miliardi di dollari, ben al di sopra dei livelli pre-Covid. Gli aumenti sono concentrati principalmente nelle energie rinnovabili e nelle reti e negli interventi per aumentare l’efficienza degli usi finali.
Gli investimenti in petrolio, gas, carbone e approvvigionamento di combustibili a basse emissioni di carbonio, pur aumentano a loro volta, perché riflettono la spinta alla diversificazione delle economie avanzate, rimangono al di sotto dei livelli visti prima della pandemia nel 2019. L’aumento del valore degli investimenti riflette però almeno per la metà l’incremento dei prezzi lungo le filiere produttive, che per la prima volta salgono anche per le energie rinnovabili (i pannelli solari e le turbine). L’aumento di questi prezzi, a sua volta, riflette le strozzature delle catene del valore e le pressioni contrastanti che queste subiscono sotto la spinta della guerra e di una pandemia ancora non archiviata. Per l’Italia, benché la situazione sembri difficile, bisogna tenere conto del fatto che i due campioni nazionali, Enel e Eni sono anche maggiori protagonisti della scena internazionale dell’energia. Le prospettive di accordi internazionali con i paesi produttori che risolvano in breve termine la nostra dipendenza energetica dalla Russia sono quindi, a dispetto delle apparenze, eccellenti.
La situazione economica non è tale, tuttavia, da prestarsi a facili soluzioni politiche. Il controllo dell’inflazione attraverso i tassi di interesse può essere una ricetta efficace, almeno nel breve termine per gli Stati Uniti, dove l’economia è surriscaldata e l’occupazione e i consumi continuano a salire, seppure con aumenti simultanei delle aspettative di lungo termine dell’inflazione. Per l’Europa, da un lato l’economia sembra già in fase di ritirata, e sia l’occupazione sia i consumi non appaiono particolarmente esuberanti. Dall’altro lato, la reazione alla invasione dell’Ucraina comporta una politica di rafforzamento della security europea, con aumento delle spese militari ed investimenti importanti sia per l’area Euro, sia per l’area dell’intera unione.
Questi investimenti pubblici inevitabilmente determineranno una ulteriore espansione della domanda aggregata, con effetti produttivi dubbi, se non indirettamente, attraverso le catene del valore delle armi e della tecnologia militare e, se realizzati con successo, attraverso il rafforzamento delle misure di sicurezza e della riduzione dell’incertezza. Che fare? Ed è evidente che su entrambe le sponde dell’Atlantico è necessario riconsiderare la politica economica, con un occhio al freno (i tassi di interesse) e uno all’acceleratore (la spesa pubblica). Negli Usa, la Federal Reserve è intervenuta con decisione e il suo capo ha manifestato l’intenzione di procedere con il freno monetario anche a rischio di causare una recessione.
In altre parole, benché la Fed abbia per legge sia la missione di mantenere la stabilità dei prezzi, sia di favorire la crescita, a questo punto essa considera la prima prevalente sulla seconda, data la gravità percepita della fiammata inflazionistica. In Europa, dopo una prima manifestazione simile, peraltro molto criticata a causa della apparente fragilità della ripresa economica e del minore peso strutturale dell’inflazione, la Bce è sembrata far marcia indietro, a dispetto del fatto che la sua missione, per statuto sia esclusivamente la stabilità dei prezzi.
Tuttavia, si può argomentare che proprio questa stabilità rischia di essere compromessa dalla frammentazione valutaria che potrebbe essere causata da un movimento incontrollato degli spread. A livello dei singoli Paesi, la situazione è, infatti, è molto diversa, e i paesi del Sud, in particolare l’Italia, ma non solo, mostrano sintomi preoccupanti di predisposizione a crisi strutturali, e a una recessione acuta con fenomeni collaterali di aumento delle ineguaglianze e della povertà e di dumping sociale. In Italia, a questo proposito, il Pnrr, indicato come una panacea da molti esponenti politici ed operatori economici, avendo coltivato una caotica aspettativa di risorse negli operatori economici, a fronte di limitate capacità di realizzazione delle riforme e di progetti di investimento validi, si manifesta anche come uno delle possibili cause delle prospettive di stagflazione.
Una azione di politica economica che affianchi il Pnrr, ne metta in sicurezza gli obiettivi più importanti, e complementi le misure di espansione della domanda con azioni immediate, e non protratte nel tempo, dal lato dell’offerta, appare essenziale. Il problema con il Pnrr e il Next Generation Eu, infatti, è che lo sfasamento temporale tra la spesa per investimenti e gli incrementi dell’offerta alimentano uno squilibrio crescente tra domanda globale, gonfiata dalla concentrazione nel tempo degli investimenti, e l’offerta che invece deve attenderne la implementazione e sopportarne i probabili fallimenti.
L’espansione della domanda si scontra però nel breve termine con la contrazione dell’offerta dell’energia e delle materie prime, e con le strozzature delle catene del valore conseguenti prima alla pandemia e ora alla guerra. Una parte delle risorse degli investimenti previste nei piani di ripresa dovrebbe essere quindi incanalata immediatamente all’incremento dell’offerta necessario a curare le spinte verso la stagflazione della situazione attuale. Se da un lato la domanda va raffreddata attraverso lo strumento monetario, dall’altra l’intervento più produttivo sarebbe quello sulla espansione dell’offerta, specialmente nella efficienza e nella produttività del capitale umano e non umano immediatamente disponibile.