Il fronte della partecipazione perde pezzi ad ogni giro elettorale, ma, per favore, fermate le prefiche sulla porta: non è il momento del requiem. Piuttosto rimettiamo in piedi la politica, oggi parecchio distratta. O distrutta. Con due leve. La rubrica di Pino Pisicchio
Referendum a parte- storia di complicatezze e di usura dello strumento che sta in piedi solo se ci sono quesiti “percepiti” dal popolo- si lanciano alti lai sulla desertificazione delle urne per il “misero” 54% dei votanti. Che non è sicuramente una cifra da partecipazione di massa, ma, vivaddio, neanche evoca la desertificazione di massa. Tanto per fare paragoni concreti, lo stesso giorno la Francia andava al voto per rinnovare il Parlamento, dunque l’organo costituzionale con la caratura politica assoluta, e registrava il 48% dei votanti, giustificando, eccome, un allarme francese sull’estenuazione della democrazia. Sappiamo che con il ballottaggio andrà anche peggio, perché è sempre così.
Nelle ultime elezioni politiche italiane, punto più basso della partecipazione al voto dalle origini della Repubblica, gli italiani che si recarono alle urne furono il 73%, che resta uno dei livelli partecipativi più alti nelle democrazie occidentali. Inoltre è utile rammentare che storicamente il livello di partecipazione del popolo alle amministrative è stato sempre più basso di quello registrato alle politiche, facendo registrare uno spread di almeno il 10/15% a vantaggio delle elezioni parlamentari. E questo anche ai tempi della Prima Repubblica, quando le leggi elettorali erano basate sugli stessi principi e i nomi dei partiti erano gli stessi, nel confronto locale e in quello nazionale. Anzi, più semplicemente, quando i partiti c’erano, punto e basta.
La ragione del diverso atteggiamento dell’elettore nei livelli locale e nazionale era e resta la valutazione del diverso contenuto della sua scelta, riconoscendo al livello nazionale un carattere ideologico ed una visione larga, e attribuendo a quello locale il profilo pragmatico dell’amministrare, considerato, se non ideologicamente neutro, sicuramente meno prigioniero di canoni filosofici e più radicato nella quotidianità: in fondo risolvere il problema del traffico o dello smaltimento dei rifiuti, non significa necessariamente affidarsi alla visione di Von Mises piuttosto che di Piero Sraffa, ma metterci dentro quel buon senso necessario a risolvere i problemi. Certo, le visioni generali, poi aiutano, ma intanto c’è l’affanno quotidiano e per questo, magari, l’elettore giudica avendo un rapporto di prossimità col candidato. Ecco perché le “civiche”andavano alla grande già ai tempi della prima repubblica, quando i partiti di massa erano presenti in tutti gli ottomila e rotti comuni italiani. Figurarsi, allora, oggi, tempo che ha salutato il definitivo tramonto del partito politico.
Tornando alla domanda: dobbiamo preoccuparci per questo abbandono della buona abitudine di votare?
Certo, il fronte della partecipazione perde pezzi ad ogni giro elettorale, ma, per favore, fermate le prefiche sulla porta: non è il momento del requiem. Piuttosto rimettiamo in piedi la politica, oggi parecchio distratta. O distrutta. Due leve: leggi elettorali che restituiscano lo scettro al cittadino e ricostruzione della forma-partito democratica, contendibile, capace di adempiere anche alla funzione della formazione del suo ceto. Come fanno le fondazioni in Germania. Finanziate dallo Stato. Ed è una cosa che funziona. Non una bestemmia.