Se la democrazia illiberale già collocava Orbán su una linea di conflitto con Washington e la sua posizione nella guerra in Ucraina ha acuito il divario, un destino opposto sembra invece abbracciare la Polonia. Pubblichiamo un estratto da “Ribelli d’Europa”, il libro di Alberto Simoni, corrispondente dagli Stati Uniti del quotidiano La Stampa (Paesi Edizioni)
L’isolamento ungherese sulla scena internazionale è palpabile. Pesano due elementi su questo irrigidimento dei rapporti con gli Stati Uniti. Il primo è che il premier ungherese è considerato un vassallo di Putin. Benché abbia sostenuto tutti i round di sanzioni, il suo atteggiamento di capofila dei riluttanti lo porta a essere percepito come inaffidabile sia dai media sia nelle stanze del Dipartimento di Stato. Non lo aiutano, inoltre, i report sulla democrazia di Freedom House, che ha collocato l’Ungheria – sia nel 2020 sia nel 2021 – sotto la categoria «regimi ibridi», ovvero quelle Nazioni in cui la democrazia sta scivolando verso l’autocrazia.
Gioca contro Orbán – e questo è il secondo motivo di attrito – pure la vicinanza con Donald Trump non esauritasi con la fine della sua presidenza.
L’ex capo della Casa Bianca è stato fra i primi a congratularsi con Orbán dopo il successo elettorale di aprile; suoi accoliti sono spesso a Budapest per convegni e incontri e i ministri del governo ungherese sono ospiti fissi alle conferenze dei gruppi conservatori negli Stati Uniti. Tucker Carlson, l’imbonitore della Fox News, è trattato alla stregua di un capo di Stato nelle sue visite a Budapest.
Orbán fra l’altro nell’ultimo decennio ha tessuto legami politici (e soprattutto economici) non solo con la Russia ma anche con la Cina proprio nel momento in cui i tentacoli di Pechino erano maggiormente nel mirino delle critiche statunitensi. L’Ungheria è stata fra i primi Paesi a siglare il memorandum per la nuovaVia della Seta e non sono passate inosservate le prese di posizione pro Huawei fatte da Budapest mentre il Dipartimento di Stato – ancora sotto l’Amministrazione Trump – lanciava una lotta senza quartiere contro il software sponsorizzato dal Partito comunista, invitando gli europei a chiudere le porte digitali e il mercato a un cavallo di Troia del regime.
Se la democrazia illiberale già collocava Orbán su una linea di conflitto con Washington e la sua posizione nella guerra in Ucraina ha acuito il divario, un destino opposto sembra invece abbracciare la Polonia. I rapporti con il governo targato PiS non sono certamente caratterizzati da una sintonia di vedute sulle questioni sociali e sui diritti civili.
Il Dipartimento di Stato nel 2022 ha diffuso il primo rapporto sulle iniziative che gli Stati Uniti sostengono nel mondo a favore delle comunità omosessuali e transgender. In Polonia, gli Usa hanno avviato una campagna sui social e sui media tradizionali contro le pratiche discriminatorie e l’incaricato d’affari statunitense ha preso una posizione molto netta intervenendo alla Conferenza Impact 21 di Varsavia, dove ha parlato di inclusione e diversità messe a repentaglio da alcune scelte politiche: è un riferimento alle zone off limits per trans e gay istituite simbolicamente in un terzo dei comuni polacchi (e per questo finiti nel mirino della Ue).
La campagna poi è culminata nella diffusione di un video dal titolo Words Matter («Le parole contano») nel quale esponenti della comunità omosessuale polacca hanno raccontato esperienze di odio e di discriminazione. Il video è stato visto 35 milioni di volte.Washington è entrata a gamba tesa anche sull’esecutivo, quando ha approvato la legge che riduceva la presenza di aziende straniere nel mercato dei media. La norma avrebbe colpito in particolar modo l’americana Discovery. La legge poi è stata cassata dal presidente Duda in un gesto che è parso distensivo proprio nei confronti dell’alleato statunitense.
Tuttavia tolto il Regno Unito l’America non ha alleato più solido della Polonia nel contenimento e nel confronto con la Russia. Kaczyński ha aperto alla possibilità di ospitare sul terreno polacco testate atomiche statunitensi, evidenziando che «ha senso in questo momento allargare la deterrenza nucleare al fianco orientale della Nato». Ha quindi ribadito la disponibilità ad accogliere più soldati americani sia in Polonia sia in Europa, sostenendo che «75 mila militari statunitensi dovrebbero essere dislocati ai confini Est dell’Alleanza».
Il presidente Duda è una presenza fissa dei vertici del G7. E nemmeno l’incidente diplomatico rischiato sulla vicenda dei Mig-29, che la Polonia avrebbe voluto dare agli ucraini ma passando dalla Nato mentre Washington non era convinta dell’opzione (poi tramontata anche per divisioni interne all’Amministrazione Usa, nda), ha minato il percorso di riavvicinamento fra Varsavia e l’America.
Gli elementi di contrasto non sono svaniti, ma sono finiti in un cono d’ombra schiacciati dall’attenzione puntata sulle questioni militari e strategiche. Questo è un successo per la Polonia che Viktor Orbán non può rivendicare, ma nemmeno sperare di conseguire e che scava un fossato fra i due interpreti dell’illiberalismo europeo.