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Productive equity, a chilometri zero. L’analisi di Scardovi (Hope)

Di Claudio Scardovi

Per l’intera industria del risparmio gestito italiano è l’occasione per riappropriarsi della grande ricchezza che ci siamo forse dimenticati di avere, lasciandola gestire agli altri e per una più elevata redditività sostenibile per gli stessi intermediari finanziari che hanno la missione di raccogliere e gestire al meglio i risparmi degli italiani, produttivamente e a chilometri zero. L’intervento di Claudio Scardovi, fondatore e amministratore delegato Hope Sicaf Sb Spa

L’Italia è, per le dimensioni del suo risparmio finanziario privato, l’ottavo Paese al mondo, con circa 5mila miliardi di euro. La sola componente liquida (conti correnti bancari e depositi postali infruttiferi) è pari a circa 2mila miliardi di euro – e oggi pesantemente soggetta alla tassa subdola e ingiusta dell’inflazione, che ne abbatte radicalmente il potere d’acquisto. Nonostante questo, secondo Aifi, la quota a livello europeo dei fondi comuni di diritto italiano è pari ad appena l’1,6%, rispetto al 20-30% di Lussemburgo e Irlanda e al 15-20% di Francia e Germania.
L’industria del risparmio gestito italiano può oggi contribuire a indirizzare e risolvere questi ossimori, perseguendo fondamentalmente due obiettivi.

In primis, per contribuire a ricapitalizzare e trasformare le imprese e città italiane, una quota rilevante di tali risparmi deve essere investita nell’economia reale del Paese – Pmi e anche nell’immobiliare e nelle infrastrutture. Tali risparmi devono essere investiti come private equity – anzi, productive equity (PE, per entrambi), ovvero come capitale di rischio investito nell’economia reale italiana in chiave non speculativa e con un approccio di partnership operativa, oltre che finanziaria. In una mia analisi (Piano “Shock & Grow”, o “cresci-Pil”), stimo in un incremento ricorrente (on-going) del Pil pari al 4-5% l’impatto attribuibile alla conversione del 20% (circa 1000 miliardi di euro) di tali risparmi in productive equity.

In secundis, per garantire che tale ricapitalizzazione e trasformazione avvenga al meglio (i.e. perseguendo obiettivi di sostenibilità economica, sociale ed ambientale) e soprattutto nell’interesse degli Italiani (i.e. garantendo che le Pmi e altri asset reali investiti rimangano in mani italiane e che il valore economico aggiunto prodotto venga principalmente catturato dal sistema Paese e dal suo popolo di cittadini-risparmiatori), occorre che tale productive equity sia anche “a chilometri zero”. La re-intermediazione e gestione attiva dei risparmi degli italiani, per investimenti in Italia, dovrebbe infatti realizzarsi tramite fondi d’investimento alternativo (Fia) di diritto italiano e gestiti da società di gestione anch’esse italiane e gestite dai migliori gestori Italiani – idealmente nella forma di Sicaf autogestita, che include in un’unica entità legale sia la dimensione del fondo che quella della società di gestione.

Ci sono due ordini di motivi per supportare oggi la crescita di Fia productive equity a chilometri zero.
Il primo, di natura etico-morale. Essere basati in Italia, con un’unica entità giuridica equa e trasparente di fondo-società di gestione vuol dire essere pagatori di tasse del Paese (il primo passo verso la sostenibilità) ed essere coerenti, rispetto agli obiettivi perseguiti; e trasparenti, rispetto ai modi scelti per realizzarli. Separare una società di gestione di pochi che guadagnano molto (basata magari alle Cayman) dal fondo dei molti che investono e rischiano l’intero capitale (magari in Lussemburgo) rappresenta una forma di paleocapitalismo anglosassone di cui l’Italia è ancora vittima consenziente e di cui si deve liberare per riprendere in mano, in sostenibilità e con ritorni economici, il proprio destino.

Il secondo, di natura finanziaria-operativa. Essere basati in Italia, per la raccolta dei capitali come per le scelte d’investimento e gestione, con cda e team d’investimento (tenuti rigorosamente separati) composti dai migliori professionisti e talenti italiani significa poter rinunciare al broker basato in Minnesota, che ha magari una advisory company a Dallas, e un centro decisionale a New York (e un’entità finale tassata, anzi non tassata, alle Cayman).

Ovvero, significa anche maggiore efficienza (il plusvalore prodotto non viene distribuito per la maggior parte alla catena lunga degli intermediari e gestori stranieri) ed efficacia (il Fia viene gestito con tempi e sensibilità decisionali radicalmente diverse, essendo l’intera catena del valore del productive equity “a economia circolare” basata a un passo dai territori d’eccellenza, delle imprese competitive e delle città attraenti del Paese). Significa anche, per l’intera industria del risparmio gestito italiano, riappropriarsi della grande ricchezza che, se non perduta, ci siamo forse dimenticati di avere – lasciandola gestire agli altri; per metterla al servizio del Paese, nell’interesse ultimo (economico in primis) dei cittadini-azionisti; e, perché no, anche ai fini di una più elevata redditività sostenibile per gli stessi intermediari finanziari che hanno il mandato, ed anzi la missione, di raccogliere e gestire al meglio i risparmi degli italiani – produttivamente e a chilometri zero.

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