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Come conciliare salario minimo per legge e contrattazione collettiva

Un salario minimo definito per legge può causare più problemi di quelli che elimina: ci sono differenze sostanziali di costo della vita sul territorio, è complicato aggiornarlo se necessario, è difficile prevedere incentivi di secondo livello per rispecchiare la produttività. Tutti i nodi secondo Giuseppe Pennisi

L’Unione europea circa un anno fa aveva approvato a larga maggioranza la proposta che mira a stabilire i requisiti per garantire un salario minimo, in modo da conferire un livello di vita dignitoso per i lavoratori. Oggi 7 giugno si è raggiunto un accordo politico tra le istituzioni europee sulla direttiva, nel rispetto delle diverse impostazioni nazionali dei 27 Paesi.

Fino ad oggi il minimo garantito per legge è previsto solo in sei Paesi dell’Unione europea: Danimarca, Finlandia, Svezia, Austria e Cipro. Mentre nel resto dell’Europa il salario minimo previsto dalla contrattazione collettiva oscilla tra i 332 euro della Bulgaria ai 2257 del Lussemburgo.

Al salario minimo sembra favorevole il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il quale ha dichiarato che “se ben studiato è una cosa buona”, ma ha sollevato anche alcune questioni importanti. Ecco cosa ha detto al riguardo al Festival dell’Economia di Trento: “Il salario minimo ha vari effetti positivi ma il rischio sta nel livello perché se è eccessivo può portare a non occupare persone che potrebbero invece voler lavorare al di sotto di quel livello e che hanno una produttività sostanzialmente in grado di non arrivare a quel livello lì. Quello che è importante è non legarlo ad automatismi che poi ci possono costare, per esempio un salario minimo che ha piena indicizzazione ai prezzi al consumo se diventa il modello di riferimento per tutti i salari, tutte le contrattazioni, incorpora direttamente quel meccanismo automatico. Bisogna aumentare la produttività, se cresce anche i salari crescono”. Le forze politiche e sindacali hanno pareri differenti in materia. Le organizzazioni datoriali sono contrarie.

In effetti, la nostra storia culturale e sindacale si basa sulla contrattazione collettiva. Se negli ultimi 22 anni i salari non sono cresciuti, le ragione risiede in gran parte alla mancata crescita del Pil e della produttività. Invece, di utilizzare l’integrazione economica internazionale per sviluppare comparti tecnologicamente avanzati ad altra produttività, siamo diventati il maggior produttore di biciclette, come lo era la Cina degli anni Sessanta. Di conseguenza, i salari restano al palo.

In effetti, un salario minimo definito per legge può causare più problemi di quelli che elimina: ci sono differenze sostanziali di costo della vita sul territorio, è complicato aggiornarlo se necessario, è difficile prevedere incentivi di secondo livello per rispecchiare la produttività.

I due sistemi (contrattazione collettiva-Ccnl e salario minimo per le categorie che non partecipano a tale contrattazione – in Italia meno del 15% dei lavoratori dipendenti) possono coesistere se si elimina la piaga dei contratti pirata. Si tratta di contratti nazionali sottoscritti da sigle di rappresentanza minori, fittizie o di comodo, che puntano a ridurre i costi togliendo dalle buste paga soldi e benefit. Dal commercio alla logistica, dalla metalmeccanica al tessile, non c’è comparto in cui non ci siano dipendenti “di serie B” che guadagnano poco più di 1000 euro (in alcuni casi meno) a fronte degli almeno 1.500 di chi fa lo stesso lavoro con il Ccnl principale. Ora, l’unico argine sono i giudici del lavoro: “Ma una causa vale solo per chi la fa”, spiega il giuslavorista Raffone, “e molti hanno paura a denunciare”.

Una vera e propria giungla secondo l’ultimo report del Cnel. A giugno si contavano in Italia addirittura 985 contratti nazionali vigenti (compresi quelli del settore pubblico), di cui più di metà scaduti da anni. Ma la prova della proliferazione di quelli pirata viene dalle percentuali di applicazione: quasi il 90% dei dipendenti fa capo a non più di 60 contratti. Nel commercio e terziario i cinque più applicati coprono l’85% dei lavoratori, più di 3 milioni di persone. Gli altri? Dispersi in una miriade di accordi al ribasso.

Sarebbe semplice cambiare il sistema. Per anni ho presieduto la Commissione Informazione del Cnel. La Commission è ora preposta alla raccolta, alla organizzazione ed alla elaborazione delle informazioni in materia di mercato del lavoro, andamenti retributivi e contrattazione collettiva; impartisce le direttive per l’istituzione dell’Archivio nazionale dei Contratti e della Banca Dati sul Mercato del Lavoro. Basterebbe darle anche il compito di esaminare nel merito i contratti e “bollinarli”; ciò è fattibile tanto più che c’è un concorso in atto per rafforzarne la struttura.

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