Sembrerebbe che l’estrogeno antagonista che gonfiò il muscolo pentastellato e salviniano, dirottando masse popolari di consensi, stia svaporando. E non è solo un problema di voti, ma anche di ruolo. La rubrica di Pino Pisicchio
Il pendolarismo emotivo degli elettori italiani ci mette di fronte ad una nuova oscillazione. Sembrerebbe, infatti, che l’estrogeno antagonista che gonfiò il muscolo pentastellato e salviniano, dirottando masse popolari di consensi, stia svaporando. E non è solo un problema di voti, ma anche di ruolo.
Più clamorosa forse la parabola dei Cinquestelle a guida contiana: il turno elettorale di domenica, oltre ad averne praticamente cancellato quel poco di identità territoriale, ha certificato l’esaurimento di una funzione politica: “l’antagonismo di governo” del Capo del movimento è difficile da rappresentare plausibilmente e il conflitto interno trascina verso il basso un dibattito che ben altre questioni esistenziali dovrebbe avere al centro.
Problema serio di un fenomeno che si sta squagliando, ma che nella sua liquefazione trascina con sé tutto il centro-sinistra, che risulterebbe alquanto sconfitto nella prospettiva elettorale del prossimo anno. Ma Salvini non sta meglio. Anche lui antagonista di governo, anche lui celebrato utilizzatore di anabolizzanti elettorali, vede franare la “modalità Bolle”, sua personale specialità, e cioè la danza sulla punta del piede a filo di rasoio tra richiamo populista e voto di governo. Inoltre la fisicità con cui ha rappresentato in questi anni la sua leadership, assumendosi la responsabilità assoluta dei gesti politici (e, nel tempo bello, delle vittorie), oggi precipita in un cortocircuito di gaffes, flop, minacce roboanti incapaci di produrre esito. Come se non bastasse, poi, appare pure Meloni, la lady in black che trasforma il meritato sonno in un incubo continuo.
Insomma, come non disse una volta Martelli (cadendo sul cadunt): Conte e Salvini, simul stabunt, simul cadent. Dietro queste vite parallele di sapore plutarchiano, però, c’è qualcosa di più di una difficoltà personale: c’è la la fine del partito.
Che cosa sarebbe poi un partito politico? A pensarci rammenteremmo alcune buone cose che oggi profumano di piccolo mondo antico: organizzazione stabile, idem sentire, metodo democratico e politica nazionale. Si tratta più o meno delle stesse cose evocate dalla Costituzione e che caratterizzano la forma-partito di ordinamenti come quello inglese, tedesco, francese, americano, tanto per fare qualche riferimento noto, con partiti politici che lì affondano le loro radici alle origini delle democrazie. Vivono con difficoltà il presente, non c’è dubbio, ma sono sempre quelli da anni. Alcuni da secoli.
Bene, in Italia vige un’altra regola in cui il partito-organizzazione stabile quasi non esiste più (il Pd? Forse. Ma molto forse), il riferimento ideologico-valoriale lasciamolo perdere nell’età orgogliosamente post-ideologica, il metodo democratico è un relitto ingombrante del secolo scorso (oggi, abbiamo visto, vige il cesarismo) e la visione politica larga (“determinare la politica nazionale”, art.49 Cost.) è soppiantata dalle issues strette, quelle che si addicono al movimento.
E poi ci sono le leggi elettorali, che entrano direttamente nel cuore della politica, promuovendone la vitalità o infartuandola in modo irreversibile. Da quanto tempo ha fatto ingresso nelle leggi elettorali per il Parlamento la famigerata lista bloccata? La sua epifania si ebbe addirittura 29 anni fa, con il Mattarellum e poi non ci ha più abbandonato nella sequenza compulsiva delle successive riforme che ci hanno accompagnato fino ad oggi, spargendo instabilità a piene mani.
In principio, quando i partiti c’erano, c’era il voto di preferenza, dal 1946 al 1992 addirittura plurimo. Poi giunse la “mano di dio” del capo di partito compilatore delle liste bloccate sulla base del criterio di appartenenza.
Si trattò di una sanzione giuridica che metteva la legge elettorale in linea con il sostanziale mutamento della forma-partito: dalla dimensione democratica a quella cesaristica del partito personale totalmente controllato dal leader. Con buona pace dell’art. 67 della Costituzione. In fondo, le guerriglie che oggi tormentano la vita interna dei partiti (o quello che sono) nascono dalla elementare questione: chi farà le liste per il Parlamento?
Forse, allora, per guarire dal cesarismo una buona mano può darla il voto di preferenza. Quello che strappa al Cesare di turno lo scettro e lo restituisce all’elettore.