In mancanza di un rapporto reale con il popolo, c’è il suo surrogato virtualizzato. Che racconta un mondo non più percepito dalla politica. La rubrica di Pino Pisicchio
C’è un sito nell’infosfera infinita, www.sondaggipoliticoelettorali.it, gestito dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, che scodella con puntuale puntigliosità il risultato delle ricerche demoscopiche in materia di orientamento politico del popolo sovrano.
È una lettura interessante perché fa sintesi di tutto ciò che viene comunicato dai maggiori istituti italiani dalla grande stampa, dalla tv, e dai social. Facendo la media mediata si può arrivare ad una fotografia verosimile del placement dei diversi brand politici oggi nel Paese.
Abbiamo appreso dall’ultimo gruppo di sondaggi pubblicato nel sito – e risalente al 25/26 giugno – che vince la Meloni (22,3/25,7%),il Pd segue a ruota (20,5/22,9), Salvini arranca (14,7/16,7), e i Cinque Stelle valgono meno di un terzo dei loro parlamentari circolanti oggi nelle Camere (9,3/12,8, ma sono dati che precedono la frattura interna. Winpoll, che ha sondato l’effetto scissione, dà il 6,9 a Conte e il 4,7 a Di Maio) e che, tranne i forzaitalioti (tra 7,2 a 9,7) e Azione (3,4/5,3), tutti gli altri avrebbero problemi ad entrare in Parlamento. Insomma: Draghi (o simil Draghi) tieniti pronto per un altro giro.
Su testate blasonate in carta stampata, nei rapaci talk show e, ancor di più, nel pulviscolo stellare dell’online, regna la sondaggiocrazia, che è un prodotto apparentato con il marketing pubblicitario, ma con torsione politicante. Va più o meno così: con cadenza periodica la testata commissiona al guru dell’indagine demoscopica il sondaggione da prima pagina. In genere viene usato il metodo meno costoso di rilevazione, il CATI (Computer-Assisted Telephone Interviewing: interviste telefoniche ad un campione selezionato di 800/1000 persone), per formulare domande facili e astratte, del tipo: “Se dovesse andare a votare domani quale partito sceglierebbe?”, oppure “Quale di questi politici ritiene più affidabile?”. I risultati diventano oggetto di dibattiti e fanno da piatto forte dei salotti tv, con tanto di tabelloni incombenti sugli invitati spaparanzati nelle poltrone griffate.
La procedura (e la notizia che ne segue) ci sta tutta, per carità. Ma ciò che va in pagina si rappresenta di fronte alla pubblica opinione come il risultato irrefutabile di una istantanea degli umori profondi nel Paese. Attenzione: il valore di quel prodotto è moltiplicato dal fatto che i partiti, intesi come mediatori tra popolo e istituzioni, non ci sono più e l’orientamento degli elettori, in mancanza di una “presa diretta” da parte del politico, si fa derivare esclusivamente dal sondaggio. Che funge, però, non solo da “annusatore” dell’umore prevalente, ma anche da strumento per disegnare una specie di rating di valore delle forze in campo, per il negoziato tra i soggetti politici.
Per capirci: un soggetto che entra in un’alleanza con un altro, avrà diritto a candidati nella quota maggioritaria contenuta nella legge elettorale, percentualmente corrispondenti al consenso certificato dal sondaggio. Un altro effetto è quello che gli americani chiamano “bandwagon” e che Flaiano traduceva con “correre in soccorso dei vincitori”: c’è sempre una tendenza a mettersi dalla parte di chi vince, specialmente per quel segmento elettorale che ha a che fare col potere pubblico, ma più in generale, per “italica generosità”.
E comunque questo è un lascito diretto dell’uso del sondaggio nel marketing pubblicitario: se tutti comprano quel dentifricio vorrà dire che è davvero buono. Nella piccola cronaca di una politica impegnata a guardarsi il naso e a calcolare di quanto è possibile allungare la legislatura (bastano anche tre mesi in più, a vostro buon cuore…), il sondaggio rappresenta, dunque, già un evento.
Insomma: in mancanza di un rapporto reale con il popolo, c’è il suo surrogato virtualizzato. Che racconta un mondo non più percepito dalla politica. Come quando quasi tutti i deputati (tranne una piccola pattuglia), votarono per il taglio dei parlamentari presumendo che il popolo in massa ne fosse convinto, così come dicevano i sondaggi, “perché si sa la gente odia i politici”. Salvo poi prendere atto, col voto vero, che c’era un 30% del popolo che, nonostante una narrazione pressoché univoca e martellante, era andato a dire che quella riforma non convinceva per niente. Un 30% di elettori a fronte del 3% o poco meno di deputati che avevano corrisposto alla loro visione. Un partito intero, di quelli di massa.