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Perché l’economia asiatica rischia una nuova recessione

In concomitanza col 25esimo anniversario della crisi finanziaria del 1997 gran parte dei Paesi dell’Asia, Cina compresa, potrebbe finire in default a causa dell’aumento dei tassi di interesse imposto dalle banche centrali

I primi a dirlo erano i maestri delle scuole elementari. “Perché studiamo la storia? Per non ripetere gli errori del passato”. L’Asia, almeno dal punto di vista economico, non sembra aver imparato la lezione. Quest’anno ricorre il 25esimo anniversario della crisi finanziaria del continente. Dal 1997 al 2022: oggi l’inflazione spinge le banche centrali asiatiche ad accelerare il ritmo dell’incremento dei tassi di interesse. E il rischio di una nuova recessione di gran parte delle economie dell’Asia, Cina compresa, è in aumento.

Chi se la passa peggio è lo Sri Lanka, che si trova nel bel mezzo della peggiore crisi economica di sempre. Il Paese che si affaccia sull’oceano indiano, secondo Bloomberg, ha una probabilità di cadere in recessione dell’85% nel 2023. L’instabilità politica non aiuta: lo scorso sabato i dimostranti anti-governativi hanno assediato la residenza del presidente singalese, Gotabaya Rajapaksa, che è fuggito dalla capitale Colombo per mettersi al sicuro.

Gli economisti di Bloomberg hanno messo in allerta finanziaria anche Taiwan e le Filippine, ma il default potrebbe riguardare anche i Paesi che sostengono economicamente l’Asia. A cominciare dalla Cina, che ha una probabilità di recessione del 20%, seguita dal Giappone e dalla Corea del Sud, che hanno più o meno la stessa percentuale di pericolo. In generale, il rischio di crac finanziario dell’Asia va tra il 20 e il 25%. I timori di recessione hanno già conseguenze tangibili: affondano il petrolio e soprattutto possono indebolire i mercati azionari asiatici.

E la storia? Il 2 luglio del 1997 le autorità della Thailandia svalutarono la moneta locale, il baht, innescando un’ondata di crisi economiche nell’Asia orientale con effetti a catena su altre economie emergenti, tra cui Russia e Brasile. L’aumento dei tassi di interesse nominali e reali ebbe gravi conseguenze sulle banche locali, che non furono più in grado di rimborsare i prestiti a breve termine in valuta estera. Fu così che la crisi finanziaria interessò rapidamente l’economia reale, provocando una stretta creditizia che portò a numerosi fallimenti di imprese, banche e istituzioni finanziarie.

Secondo l’economista Homi Kharas ci sono due insegnamenti che l’Asia non ha recepito. Primo: “Quando le economie sono costruite su fondamenta difettose la crescita non è sempre vantaggiosa, ma può portare a un accumulo di rischio”, ha spiegato. “Nel caso dell’Asia orientale la crepa nelle fondamenta è stato l’assunto secondo il quale l’ancoraggio della valuta al dollaro Usa attraverso un tasso di cambio fisso non sarebbe cambiato. Il risultato è stata un’enorme raccolta di disallineamenti valutari nei bilanci”.

Secondo: “La conseguenza di questi disallineamenti su così tanti consuntivi è stata che, quando le valute sono state aggiustate di fronte alla carenza di dollari, il danno economico ha raggiunto picchi devastanti”, ha aggiunto l’economista. “Ma il vero punto che mi preme sottolineare è che uno choc esterno ha avuto un enorme impatto anche su sistemi economici che erano stati a lungo considerati performanti”.

Lo choc esterno, oggi, potrebbe essere rappresentato dall’aumento dei prezzi dell’energia che in seguito alle sanzioni imposte alla Russia ha colpito l’Europa e gli Stati Uniti con pesanti ricadute anche sull’Asia. L’inflazione e le banche stanno facendo il resto. Ecco perché il continente asiatico, se vuole scongiurare una nuova crisi finanziaria, deve rimettersi a studiare.


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