All’ordine del giorno domani ci sarà “lo scudo anti-spread”. Il nuovo strumento potrebbe essere di dimensioni illimitate e comportare condizionalità macro e sterilizzazione della liquidità. Ma le insidie si nascondono nei dettagli e i recenti commenti dei governatori suggeriscono che ci sono ancora divergenze di opinione. Il commento di Giuseppe Pennisi
Domani 21 luglio, si riunisce il Consiglio della Banca centrale europea (Bce) con un ordine del giorno molto ricco. L’argomento più atteso è quello che Christine Lagarde chiama “lo strumento anti-frammentazione” e che in Italia si preferisce denominare “lo scudo anti-spread”; su questo tema ci saranno dibattiti in seno al Consiglio e non è detto che non si debba attendere la prossima riunione dell’organo per la sua approvazione e il suo varo operativo. Il nuovo strumento potrebbe essere di dimensioni illimitate e comportare condizionalità macro e sterilizzazione della liquidità. Ma le insidie si nascondono nei dettagli e i recenti commenti dei governatori suggeriscono che ci sono ancora divergenze di opinione. Pertanto, c’è il rischio che la presidente Lagarde non sia in grado di fornire tutte le risposte, con il pericolo di provocare maggiore volatilità sui mercati. In definitiva, aspettiamo di conoscere i dettagli prima di esprimere pareri.
La Bce ha già annunciato che, dopo oltre un decennio di tassi ultra-bassi, si appresta a fare scattare la sua politica di rialzi il 21 luglio, seguendo la maggioranza delle banche centrali delle principali economie. Il Consiglio direttivo ha già fatto sapere nell’ultima riunione che il rialzo, il primo dal 2011, sarà di 25 punti base su tutti e tre i tassi di interesse chiave. Alcuni governatori hanno preferito tenere aperta la porta a un aumento più consistente, e queste voci potrebbero farsi più forti se l’inflazione finale di giugno dovesse superare a sorpresa il già alto 8,6%. Anche se la Bce potrebbe attenersi a quanto annunciato per questo mese, le crescenti pressioni inflazionistiche, aggravate dai crescenti rischi di scarsità di energia, favoriranno probabilmente l’approccio falco della banca centrale nel breve termine. Il Consiglio direttivo potrebbe confermare un rialzo di 50 punti base a settembre e ulteriori rialzi nel corso dell’anno.
Non è formalmente all’ordine del giorno ma sarà, senza dubbio, al centro delle discussioni informali, il ribasso dell’euro sul dollaro di questi ultimi giorni, un declino che, da un lato, può favorire le esportazioni europee ma dall’altro stimolare inflazione, ove mai ce ne fosse bisogno. Quando insegnavo utilizzavo per preparare la lezione sulle fluttuazioni del cambio un lavoro di Rudiger Dornbush (economista del Massachusetts Institute of Technology e grande amico di Mario Draghi) “Expecations and Exchange Rate Dynamics”. Per Dornbush, i tassi di cambio segueno le aspettative di lungo e medio periodo di dove vanno le economie reali: se ci si “aspetta” un’espansione si rafforzano, se ci si “aspettano”, invece, anni bui e un declino si indeboliscono.
Le politiche monetarie incidono sui cambi nel breve periodo. Un aumento dei tassi negli Usa ha certamente inciso sui movimenti finanziari; i capitali sono andati dove “rendono” di più ma sono pronti a tornare indietro ai primi cenni di declino del cambio del dollaro, che anche ove non incidesse sui “rendimenti” dei titoli in dollari comporterebbe una perdita della valorizzazione, ossia in conto capitale.
Paul Krugman, correttamente, afferma che i tassi di interesse (e i ritardi della Bce nell’adeguarsi al contesto internazionale) non sono la determinante principale del declino del cambio dell’euro sul dollaro. Nonostante i guai dell’economia americana (ad esempio, un tasso d’inflazione che viaggia al 9,1% l’anno), le attese per l’economia europea (agli occhi degli operatori finanziari) sono ben peggiori e tutte collegate, in buona misura, all’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Negli ultimi vent’anni, l’Ue ha costruito la propria crescita e la propria prosperità su due determinanti che sono venute a mancare: importazioni dalla Russia di energia a basso costo ed esportazioni di manufatti (in particolare macchine utensili) verso la Cina (ora da un lato in grave rallentamento economico e da un altro resasi autosufficiente in numerosi comparti). L’euro è in un’incudine e non può che risentirne.