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Più scuro che chiaro. Il bilancio della “legislatura della pandemia”

Di Tommaso Edoardo Frosini

Poca attività ordinaria ma tanta da legislatore costituzionale, in maniera disordinata, senza una visione degli effetti. Così si conclude la diciottesima legislatura segnata dall’emergenza sanitaria

La diciottesima legislatura volge al termine, sia pure con alcuni mesi in anticipo rispetto alla sua scadenza naturale. Si può fare un bilancio. Come ha lavorato il parlamento in questi quattro anni e passa? Certo, va subito detto che nel periodo più acuto della pandemia è stato condizionato significativamente il lavoro delle Camere, le quali si sono limitate a convertire in legge qualche decreto e “subire” una pioggia di decreti di natura amministrativa provenienti dalla presidenza del Consiglio. Non poteva essere altrimenti: l’emergenza sanitaria ha imposto le sue regole (anche) normative, che mal si conciliavano con i tempi lunghi delle leggi parlamentari, che sono frutto di un bicameralismo defatigante. Va altresì detto, che il virus ha colpito in numero rilevante anche i parlamentari, impedendogli di essere presenti in aula e nelle commissioni. Da qui la richiesta, per fortuna non accolta, di consentire il voto a distanza, che avrebbe creato un precedente assai poco edificante e di dubbia costituzionalità.

Sarebbe però riduttivo qualificare la legislatura che sta finendo come la legislatura della pandemia. Tanto per cominciare, è stata una legislatura generata da una legge elettorale pessima (e con la quale, ahinoi, andremo a votare a settembre), che non solo non ha prodotto nessun vincitore alle elezioni, e quindi una maggioranza politica, ma anzi ha consentito il formarsi di ben tre governi, ognuno dei quali con una maggioranza diversa: giallo-verde; giallo-rossa; cd. di unità nazionale (con la sola opposizione di Fratelli d’Italia). Già questo è un dato che deve fare riflettere, che induce ancora una volta a denunciare una persistente ingovernabilità, che da sempre affligge il nostro Paese. Intendiamoci: la governabilità spetta alle forze politiche assicurala. Però possono essere aiutate da una legge elettorale a prevalenza maggioritaria-uninominale, che serva cioè a fare una maggioranza e un governo, come insegna la cultura istituzionale anglosassone. E come, tutto sommato, abbiamo sperimentato anche in Italia con l’esperienza del governo Berlusconi, che durò l’intera legislatura. La mancanza di una maggioranza politicamente coesa e compatta ha mostrato la sua vulnerabilità parlamentare anche in occasione della crisi del governo Draghi. Altro che parlamentarizzazione della crisi, come è stato detto e scritto. La crisi è stata tutta politica, anche perché il parlamento la fiducia l’aveva votata. Lega e Forza Italia, piaccia oppure no, hanno saputo cogliere l’attimo fuggente, individuando il momento migliore per determinare lo scioglimento delle Camere e andare al voto, sostenuti dai sondaggi a loro, quale coalizione di centro-destra, nettamente favorevoli. Un po’ quello che avviene in Gran Bretagna, sia pure a parti invertite, dove il primo ministro chiede e ottiene lo scioglimento della Camera dei comuni quando ritiene di avere maggiore consenso elettorale, e quindi di ottenere più seggi parlamentari alle votazioni.

Torniamo però al bilancio di legislatura. Più scuro che chiaro. I provvedimenti più significativi, reddito di cittadinanza e monitoraggio degli sbarchi di immigrati, sono frutto della volontà governativa, poi recepiti dal Parlamento. Questo, piuttosto, si è distinto, specie nell’ultimo periodo, in un esercizio legislativo tra i più complessi, riuscendo cioè a modificare per ben quattro volte la costituzione (e una quinta volta dovrebbe avvenire nei prossimi giorni). Nell’ordine: riduzione del numero dei parlamentari (400 alla Camera e 200 al Senato); abbassamento dell’elettorato attivo per il Senato (da 25 a 18 anni); introduzione dell’ambiente, della biodiversità e dell’ecosistema e anche la tutela degli animali all’art. 9 cost., e cioè tra i principi fondamentali ritenuti immodificabili secondo una significativa interpretazione; modifica dell’art. 41 cost., con la limitazione dell’iniziativa economica privata se svolta in danno all’ambiente e alla salute. Infine, la prossima settimana, salvo imprevisti che si spera non vi siano, il voto finale e definitivo del principio di insularità all’art. 119 cost.

Passiamo in rassegna queste riforme costituzionali: la riduzione dei parlamentari è una riforma che nasce da lontano: infatti, non c’è proposta di riforma costituzionale, a partire dagli anni Ottanta con la commissione Bozzi, che non la prevedeva. Quindi, possiamo dire che era da tempo voluta seppure mai realizzata. Va ricordato però che il parlamento l’ha votata a maggioranza qualificata tranne nell’ultima votazione dove una pattuglia di senatori ha fatto mancare la maggioranza prevista dall’art. 138 cost, e ha così consentito che si potesse richiedere il referendum confermativo. Come in effetti è stato sia pure con esito scontato. Al punto che è lecito chiedersi della inutilità di quel referendum, peraltro paradossalmente richiesto dagli stessi parlamentari che in tre votazioni aveva (convintamente?) votato la riforma. Al di là di questo aspetto, che non è irrilevante, quello che lascia perplessi è che alla riduzione dei parlamentari non è stata corrisposta una modifica dei regolamenti parlamentari tarati sui nuovi numeri. Quindi avremo meno parlamentari ma un’organizzazione delle Camere, commissioni e giunte per esempio, strutturata ancora sulla base del precedente numero di parlamentari. Invece, il lavoro andava fatto per bene. Dopo la revisione costituzionale bisognava subito mettersi al lavoro per modificare i regolamenti parlamentari.

L’abbassamento dell’elettorato attivo per il Senato suona come una beffa. I diciottenni potranno eleggere deputati e senatori ma per essere eletti bisognerà avere compiuto i 25 anni di età per la Camera e 40 per il Senato. Qual è il senso di tutto ciò?

La modifica degli articoli 9 e 41 è tendenzialmente inutile, posto che già la costituzione prevede la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi all’art. 117, quale competenza legislativa esclusiva dello Stato. Non si vorrà credere che con la riforma costituzionale si avrà una maggiore e più efficace tutela dell’ambiente, della biodiversità e dell’ecosistema? Dubito, e la questione dei rifiuti sparpagliati nelle strade di gran parte delle città italiane è una piccola ma significativa conferma. E poi, però, c’è il precedente, che rischia di pesare come un macigno: e cioè quello di avere voluto cambiare un articolo posto tra i principi fondamentali della costituzione. Da questo improvvido atto si potrà legittimare qualunque cambiamento si vorrà fare in futuro anche dei principi fondamentali, nel bene e nel male.

Ultimo scatto parlamentare è il voto, calendarizzato per i prossimi giorni, dell’introduzione del principio di insularità in costituzione. Che potrà essere l’unica riforma davvero importante, che si inscrive nel solco della costituzione del 1948, che prevedeva la “valorizzazione delle isole”, che venne soppressa, in maniera miope, dalla confusione costituzionale della modifica del titolo quinto.

Insomma, il parlamento ha legiferato poco nell’attività ordinaria ma ha fatto troppo quale legislatore costituzionale. Troppo e in maniera disordinata, senza cioè una chiara visione della portata e degli effetti di queste modifiche costituzionali. E questa considerazione vale per fare e dichiarare un bilancio della diciottesima legislatura.

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