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Tra uomini in grigio e “Il Padrino”. Il lungo addio di Boris

Johnson, ormai sempre più isolato, lascia la guida del partito. Rimarrà premier fino alla conferenza di ottobre che incoronerà il successore. Ora il rischio è una battaglia fratricida

Quando arrivano loro, tutti i primi ministri sanno che è finita. Loro sono gli uomini in abito grigio (men in grey suits): così il commentatore Alan Watkins aveva ribattezzato la delegazione del gruppo parlamentare del Partito conservatore incaricata di portare la peggior notizia possibile al leader. Ieri sera sono andati a trovare Boris Johnson, dopo una serie di dimissioni che ha terremotato il suo governo dopo l’ultimo, l’ennesimo scandalo.

Tutti sanno che per loro è finita. Lo sapeva persino Margaret Thatcher, la “lady di ferro”, che regalò agli uomini in abito grigio il momento di massima visibilità.

Tutti, anche Johnson. Che ha fatto della sfrontatezza, forse addirittura della mancanza di vergogna, il suo superpotere. Tanto che, anche poche ore prima di quella visita, non si dava per vinto. “Come sta andando la sua settimana, primo ministro?”, gli ha chiesto il deputato laburista Darren Jones durante un’audizione piuttosto surreale al Liaison Committee della Camera dei Comuni: Risposta: “Terrific”, cioè “alla grande”. Ha intenzione di dimettersi? “Non riesco a capire come sia responsabile andarsene, soprattutto quando abbiamo un mandato come quello che abbiamo ottenuto due o tre anni fa”.

Anche dopo la visita degli uomini in abito grigio – tra loro Nadhim Zahawi, che neppure 24 ore prima Johnson aveva nominato cancelliere in seguito alle dimissioni di Rishi Sunak – il suo atteggiamento non è cambiato.

Anzi. Ha licenziato Michael Gove, suo amico e braccio destro nella battaglia della Brexit, ministro di primo piano, che gli avrebbe consigliato il passo indietro. Per Gove non è una novità: gli ultimi tre primi ministri (da David Cameron a Theresa May per finire con Jonson) l’hanno silurato. James Duddridge, un deputato molto vicino a Johnson, ha dichiarato a Sky News che il leader “è ottimista, è pronto a combattere”. Ha aggiunto che la prossima settimana, assieme a Zahawi, definirà un nuovo piano per l’economia che includerà tagli alle tasse.

È fatto così. Il suo biografo Andrew Gimson ha sottolineato il suo istinto “ultra-competitivo” e il suo disprezzo per qualsiasi tradizione parlamentare. Lo Spectator, settimanale di riferimento della galassia tory e di cui lo stesso Johnson è stato direttore in passato, ha scritto: “Boris Johnson non è un prodotto di Westminster. Non ha fatto la trafila, non ha messo in piedi nessuna tribù ed è più portato a emanare editti che a conquistare le persone. Allo stesso modo, crede di poter essere vulnerabile se segue le convenzioni – cosa che ha sempre cercato di evitare di fare”.

Ora è chiamato a mostrare fermezza e controllo, riempiendo i vuoti causati dall’esodo di massa e preparando l’importante discorso sull’economia della prossima settimana. Ma riuscirà a pronunciarlo? Probabilmente sì, ma sarà uno degli ultimi grandi appuntamenti per lui da primo ministro.

La situazione diventa ogni ora sempre più critica. Oltre 40 dimissioni dal governo in soltanto due giorni. Suella Braverman, procuratore generale per l’Inghilterra e il Galles, l’ha invitato alle dimissioni e ha annunciato l’intenzione di candidarsi alle primarie del Partito conservatore – è il primo ministro del governo a dichiararlo. Secondo i conti degli addetti, Johnson non sopravviverebbe a un nuovo voto di fiducia dei suoi: secondo il Telegraph, sarebbero in 65 a sostenerlo contro i 180 necessari per rimanere in sella.

Sta “combattendo per la vita”, recitava la prima pagina del Times di stamattina. È “ferito a morte”, scriveva il Telegraph.

Le attuali regole del partito gli evitano un nuovo voto di fiducia fino al giugno prossimo, dopo aver vinto, anche se di poco, quello dello scorso mese. Ma il Comitato 1922, cioè il gruppo parlamentare, si riunirà lunedì per eleggere il nuovo esecutivo che potrebbe decidere di cambiare le regole e aprire a un altro voto di fiducia.

“Se il partito vuole rovesciare la volontà elettiva del popolo, deve immergere le mani nel sangue”. L’ha detto un alleato del primo ministro al Sun, che spara l’avvertimento sulla prima pagina di oggi. In queste ore è tornato a circolare quando detto da Johnson nel 2019: quella della vendetta di Michael Corleone è la sua scena preferita del film “Il Padrino”. Avrebbe pensato persino di affondare con la nave. Ieri ha lasciato intendere che potrebbe portare il Paese a elezioni anticipate (ipotesi che nel partito, però, non trova sostegno). Tutto pur di non concedere le dimissioni. Perfino una sconfitta che i sondaggi preannunciano storica. Un grande, ultimo colpo di teatro. Una conclusione senza precedenti per un primo ministro che aveva iniziato il suo mandato con una vittoria storica e una maggioranza parlamentare ampia ma che si è sgretolata in neanche tre anni.

Alla fine, però, sembra prevalsa la linea del partito. Johnson ha deciso di dimettersi da leader e rimanere primo ministro fino alla conferenza di ottobre che incoronerà il suo successore dopo le primarie estive. Basterà questa decisione, riportata dalla BBC, al 1922? Il rischio di una battaglia fratricida è dietro l’angolo.

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