Il mondo brucia un record via l’altro con temperature medie globali sempre oltre la norma. Ma tra guerra, pandemia e inflazione l’emergenza climatica è già un lontano ricordo: un grave errore. Il commento di Erasmo D’Angelis
Do you remember i piani di mitigazione e di adattamento solennemente approvati ormai 7 anni or sono a Parigi dai 197 Paesi firmatari con le transizioni energetiche promesse? E poi l’ambizioso piano-apripista mondiale, quel BBB, il Build Back Better Act, il mega pacchetto dal valore da 2.000 a 3.500 miliardi di dollari con risposte alla crisi climatica, economica e sociale che avrebbe dovuto segnare la presidenza dI Joe Biden?
Beh, nella distrazione generale sul problema dei problemi, non solo il mondo torna all’incoscienza precedente ma, mentre le catastrofi prodotte dalla crisi climatica continuano a fare vittime e a costare un botto (nel 2021 oltre 300 miliardi di dollari con aumento di fame e carestie e profughi), la grande questione climatica che ci vede sull’orlo del precipizio senza vedere l’umanità decisa a reagire subito, è surclassata da altre emergenze – Covid, guerra di Putin, crisi energetiche -, e gli Usa sono oggi la cartina di tornasole del più clamoroso rischio del ritorno al passato.
L’illusione che le crisi climatiche siano passeggere ha infatti colpito 6 dei 9 giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti che, non contenti di aver già soppresso il diritto delle donne all’interruzione volontaria della gravidanza, dopo aver mostrato tutta la loro inerzia contro le stragi da Far West delle armi, hanno negato il diritto a contrastare il riscaldamento globale ad una delle più autorevoli Autority scientifiche di protezione ambientale del mondo, l’Environmental Protection Agency, la mitica Agenzia statunitense che ha fatto scuola ed è impegnata a ridurre le emissioni dei gas serra generate anche dalle centrali energetiche, e in particolare dalle più inquinanti, quelle a carbone.
L’ultima sentenza choc dell’Alta Corte ha fortemente limitato i suoi poteri e ha stabilito che solo il Congresso può varare norme con limitazioni di emissioni climalteranti, stracciando così platealmente anche le pagine migliori dell’agenda dell’amministrazione Biden, quella con la road map per obiettivi di riduzione delle emissioni a carbone fino allo zero entro il 2035 e con il dimezzamento di quelle da altre fonti fossili entro il 2050. L’EPA, con analisi e proiezioni climatiche alla mano, aveva dimostrato che le centrali termoelettriche sono la seconda fonte di inquinamento climatico dopo il settore dei trasporti, segnalando gli Stati Uniti come secondo produttore mondiale di gas serra dopo la Cina. E ogni piano di riduzione passava necessariamente dal carbone.
La sentenza per Biden e per il clima è stata «devastante». Ma tant’é. Lo scontro ambientale Democratici-Corte Suprema va avanti dai tempi di Obama che, dopo aver favorito l’accordo storico sul clima a Parigi il 12 dicembre 2015, provò a imporre più severi limiti per le emissioni di CO2 in ogni singolo Stato, obbligando le centrali elettriche a rispettarli e ad entrare in fase di transizione energetica, con più eolico e solare.
Il suo Clean Power Plan con la strategia energetica nazionale fu però stoppato nel 2016 dalla Corte Suprema, dopo la causa avviata nel dal West Virginia produttrice di carbone con altri 18 Stati repubblicani sostenuti delle grandi compagnie produttrici di carbone in nome della libertà di inquinare. La strategia di Obama venne poi abrogata nel 2019 dal fiero negazionista climatico Donald Trump, fautore di norme ultra permissive. E con Biden è toccato alla maggioranza conservatrice di 6 giudici contro 3 rimettere nel mirino l’EPA e il piano-clima, sentenziando che non può e non deve fissare limiti generali alle emissioni delle centrali a carbone (il 20% della produzione di energia elettrica Usa e sempre più saldo sulla produzione mondiale per un 40% dell’energia producendo però oltre il 70% di gas serra).
La Casa Bianca protesta per “un’altra decisione devastante che mira a far tornare indietro il nostro paese”, e Biden fa sapere che potrebbe emanare un Executive Order, un provvedimento per re-indirizzare le politiche esecutive del governo federale, e che non esiterà ad usare tutto ciò che è in suo potere per proteggere la salute pubblica e affrontare la crisi ambientale.
Ma il fatto è che la svolta green anche negli Usa è più in salita che mai. Tanto più che prima dei giudici repubblicani era già arrivato il senatore democratico del West Virginia, Joe Manchin, che si è smarcato dalle scelte ambientali di Biden annunciando a sorpresa, dopo essersi impegnato a sostenerlo, che non voterà il Build Back Better, il clamoroso piano di protezione del clima e per il nuova welfare.
Forte anche lui del sostegno della lobby dei produttori di carbone, Manchin il picconatore l’ha spiegata così a Fox News: “Non posso votare questa legge. Non posso proprio. Ho cercato in tutti i modi umanamente di trovare un motivo, ma non mi ha convinto. Questo è un no”, gelando il Presidente e il suo partito che puntavano tutto sul via libera al Piano prima di Natale, salvando la presidenza democratica. Manchin ha anche chiarito che non voterà nessuna legge che includa la tutela dell’ambiente tra i princìpi e, in un Senato spaccato a metà come una mela tra Dem e Repubblicani, il suo voto ha cambiato tutto.
Il piano clima di Biden ormai è saltato, a meno di un recupero in retromarcia del transfuga oppure del pronto soccorso di un improbabile votante transfuga repubblicano. Al momento però la nuova legislazione sociale e ambientale che i Democratici hanno già approvato alla Camera dopo mesi di dure polemiche e defatiganti negoziati, è out. Biden potrà affidarsi alle azioni esecutive per affrontare il cambiamento climatico, emanando nuove regole per l’Agenzia sugli inquinanti delle centrali elettriche a combustibili fossili e sulla limitazione delle vendite di petrolio e gas. Ma significa affrontare l’incognita di lunghe battaglie legali in tribunale.
Potrebbe dichiarare lo “stato di emergenza climatica” delineando una serie di azioni senza bisogno dell’approvazione del Congresso. Oppure non fare nulla e stralciare il piano-clima dal Build Back Better Act ammettendo platealmente di non essere stato in grado di convincere il suo senatore democratico dello stato del carbone, o un collega repubblicano, auto-affondando la sua legge presentata come la più grande speranza al mondo per affrontare la crisi climatica. Un voltafaccia clamoroso che nessuno si augura.
Con queste premesse, la pre-conferenza tecnica dell’Onu sul clima che si è svolta a Bonn il mese scorso per fare il punto dopo l’ultima COP26 di Glasgow e in preparazione della prossima COP27 di novembre a Sharm el-Sheikh in Egitto, ha visto gli sherpa dei 196 Paesi alquanto demoralizzati. La diplomazia climatica doveva riprendere il filo degli impegni presi nello storico accordo di Parigi nel taglio delle emissioni di CO2, ma ha preso atto dell’empasse. Nel frattempo le catastrofi prodotte dalla crisi climatica sono costate nel 2021 oltre 300 miliardi di dollari, mentre siccità e inondazioni sempre più estreme e imprevedibili aumentano fame e profughi climatici, e anche la nostra Penisola non sta troppo bene, intrappolata come è da due mesi nella bolla di calore più calda e con la siccità più dura del secolo.
Il mondo brucia un record via l’altro con temperature medie globali sempre oltre la norma. E se il Global Stocktake, il processo di revisione e valutazione dell’attuazione dell’Accordo di Parigi e in particolare della finanza climatica appare al momento ancora senza target, anche l’appuntamento in Egitto rischia passi indietro sui dossier e sulle azioni per contenere l’aumento della temperatura globale a fine secolo a +1,5 o al massimo 2 gradi rispetto all’era preindustriale. Perché se il cambio di passo si vede, è come quello dei gamberi, all’indietro.