Draghi aveva già deciso di dimettersi, e tutte le forze in campo hanno fatto la loro parte per guadagnare il massimo del consenso possibile. C’è chi c’è riuscito e chi no. L’opinione di Marco Zacchera
Nessuno mi toglie dalla testa che Mario Draghi avesse già deciso di programmare la sua uscita dal governo il giorno dopo la sua (mancata) elezione a Presidente della Repubblica e che abbia continuato più o meno “in folle” fino alla scorsa settimana quando le dimissioni le ha date sul serio approfittando dell’ennesima crisi in casa 5 Stelle.
Mattarella lo ha rinviato alle Camere e lui – grazie anche ai media che ne hanno rafforzato l’immagine del “buon leader contro i cattivi partiti” – ha giocato con abilità, ma anche da furbetto.
Ho ascoltato e riascoltato il suo discorso al Senato, ma quando chiede ai partiti della sua ex maggioranza “se se la sentono a rinnovarsi” e poi non si vota un documento del centrodestra che dice esattamente quello che Draghi aveva appena chiesto, ma accetta che si voti un odg di un eletto del Pd come Casini, cosa non è se un chiaro segno di voler rompere salvando la propria immagine?
Da sempre un dibattito sulla fiducia viene chiuso con un atto firmato da tutti i leader parlamentari di una maggioranza, non da uno soltanto a significare alleati di prima e seconda scelta: una provocazione, a cui il centrodestra forse non doveva abboccare, ma non è che da quelle parti ci siano in giro fulmini di guerra per tattica e strategia.
Quindi Draghi abbattuto da “fuoco amico” (quando invece, a voler vedere, il voto al Senato gli ha dato comunque una maggioranza, perché astenersi dal votare non è voto di astensione, il regolamento del senato è chiaro, ma nessuno lo ha ricordato) da quei cattivi di Berlusconi & Salvini, mentre M5S – con Conte causa prima della crisi – è sparito di scena.
Vittoria strategica per il premier, perché Draghi sa benissimo che l’Italia è in un “cul de sac”, che l’autunno sarà orribile, che i debiti contratti per il Pnrr saranno in buona parte da restituire, che non è vero che lo stesso Pnrr sia davvero “partito” bene o almeno che abbia davvero privilegiato le grandi infrastrutture per la rinascita del Paese e non si sia invece polverizzato in mille rivoli. Investimenti utili se presi uno per uno, ma senza uno schema complessivo, finendo per finanziare spese di ordinaria manutenzione di comuni ed enti locali.
Draghi furbetto? Certamente non è da premier – dopo una truffa da almeno cinque miliardi con il bonus 110% sostenere che “la colpa è dei tecnici”: che cosa ha fatto il suo governo negli ultimi 5 mesi per bloccare la mega-truffa che adesso lascia in mutande milioni di imprese, condomini e cittadini italiani? Eppure è stato proprio Draghi a scegliere dirigenti e funzionari per il Pnrr, perché non deve portarne allora la piena responsabilità?
Draghi è bravo, competente e sicuramente rappresentava il meglio sul mercato, ma è anche furbo e non c’è dubbio che politicamente negli ultimi tempi abbia strategicamente privilegiato il rapporto con Letta ed il Pd, lasciando in secondo ordine gli altri alleati. D’altronde per ricucire sarebbe bastata qualche parola – in replica al Senato – su immigrazione, cittadinanza, flat-tax o qualche altro tema nel cuore di FI o della Lega: nulla.
Riflettiamo su un governo alle prese con un periodo di emergenza, ma che negli ultimi mesi è vissuto a colpi di bonus per tutto, dallo psicoterapeuta alla benzina, senza una strategia economica od ecologica precisa: nulla di chiaro sui gassificatori, il nucleare, né tantomeno avere il coraggio di chiedere sacrifici veri rimandando le castagne bollenti a future mani altrui. Certamente è grave che l’Italia si fermi proprio adesso su temi e riforme che molto faticosamente venivano avanti ma – pensiamoci – avrebbero davvero resistito all’impatto parlamentare, nel momento in cui in una maggioranza così composita tutti dovevano metterci della propria visibilità?
Draghi ha manovrato (bene) per provocare la rottura, per “après moi le déluge” soprattutto riuscendo a gettare la croce sul centro-destra che così ne esce “colpevole” agli occhi dell’opinione pubblica, esattamente come voleva il Partito democratico.
Ottima comunque la sua strategia di immagine: “pro Draghi” si sono mossi tutti, dagli scout ai sindacati, da Confindustria addirittura fino all’Azione Cattolica che – sepolto l’ex presidente Scalfaro che ne era alfiere – da 20 anni sembrava completamente scomparsa di scena.
“Draghi Santo subito”: la beatificazione è in atto, il seggio a vita al Senato lo premierà e comunque è stato capace di passare la mano al momento giusto. Anche questo è un merito, il tempismo in politica sempre è un grande valore.