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Mica tanto friend-shoring. Ford scommette sulla Cina

Friend-shoring? Ford scommette sulla Cina per le batterie

L’automaker espande la collaborazione con il campione cinese CATL, legandosi a doppio filo con il partito-Stato. Una scelta sensata in termini economici ma opposta al riorientamento delle catene di valore verso Paesi alleati. E un sintomo del fatto che la Cina sta già vincendo la corsa del green tech

Durante il suo tour nei Paesi asiatici, la segretaria al Tesoro statunitense Janet Yellen ha reiterato il concetto di friend-shoring: diversificare le catene di approvvigionamento a favore di partner fidati, per ridurre la leva economica in mano a un Paese potenzialmente ostile. Il motivo è reso dolorosamente evidente dalla saga del gas in Europa e dalla presa che ha la Russia, mediante i combustibili fossili, sull’economia delle democrazie europee.

A Seoul Yellen ha indicato l’altra grande autocrazia, la Cina, come Paese da cui è necessario dipendere meno. “Non possiamo permetter[le] di utilizzare le [sue] posizioni di mercato in materie prime, tecnologie o prodotti chiave per disturbare la nostra economia o esercitare un’indesiderata leva geopolitica”. Ma il messaggio non sembra essere stato recepito in patria, dove un’azienda storica, sottoposta alla pressione del mercato, si sta legando mani e piedi a Pechino.

È il caso di Ford e della sua rincorsa per recuperare Tesla nel campo dei veicoli elettrici. Per farlo ha deciso di ricorrere a delle batterie a prezzi competitivi, targate CATL. Ma questa azienda, leader mondiale nella produzione di batterie, è pesantemente sovvenzionata e telecomandata dal Partito comunista cinese. In più detiene una parte consistente dei diritti minerari in Paesi terzi che rendono la Cina monopolista di fatto nel comparto delle terre rare, essenziali per costruire batterie.

In barba al friend-shoring, Ford è intenzionata a espandere la sua collaborazione con CATL. Giovedì l’automaker ha dichiarato che avrebbe importato dal partner cinese le batterie al litio-ferro-fosfato necessarie per i suoi nuovi pickup e Suv elettrici. Dal 2026, ha spiegato la vicepresidente Lisa Drake, l’azienda conta di rifornirsi da una nuova fabbrica in territorio nordamericano. Non ha voluto specificare se sarà costruita da CATL, la quale, come scriveva Reuters a maggio, stava cercando un luogo idoneo negli States per costruire un impianto e poter rifornire Ford e Bmw.

Il calcolo di Ford risponde alle logiche di mercato. L’azienda ha spiegato che ricorrendo alle batterie CATL al litio-ferro-fosfato, che costano meno pur garantendo meno autonomia, riesce ad abbattere i costi del 10-15%, evitare il ricorso a nickel e cobalto e garantire più longevità. Il settore veicoli elettrici opera ancora in perdita, ma la priorità è l’espansione: benché abbia iniziato solo quest’anno a consegnare veicoli elettrici, Ford vuole produrne 2 milioni entro il 2026.

Finora, ha detto Drake, Ford ha raggiunto il 70% della capacità in termini di batterie che gli serve per centrare l’obiettivo. Ha anche aggiunto che l’azienda vuole reperire più batterie e materie prime nel Nord America, ma è scettica sulle possibilità. “Non direi che abbiamo il 100% di fiducia che tutti questi materiali possano essere localizzati… È arduo”. CATL, da parte sua, ha dichiarato in un comunicato che “le due società intendono sfruttare i rispettivi punti di forza per esplorare congiuntamente nuove opportunità commerciali in tutto il mondo” riguardo alle batterie al litio-ferro-fosfato e non solo.

L’alleanza tra le due aziende sembra destinata a crescere, gonfiando i dilemmi del governo americano, che poi sono gli stessi degli alleati. Quanto si può bilanciare il principio di friend-shoring con l’economia di mercato? Come si può competere con le aziende cinesi, integrate con lo Stato e da esso sovvenzionate? E soprattutto, considerando la presa della Cina sulle catene del valore del green tech, quanto è realistico il decoupling dalla Cina nel mezzo della transizione energetica?

La scelta di Ford, che non è affatto l’unico automaker occidentale legato mani e piedi alla Cina, è la dimostrazione plastica del fatto che senza una risposta unitaria le economie occidentali hanno già perso la corsa.

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