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Il risiko cinese nel Mediterraneo

Di Leonardo Bruni e Amanda Chen

Dall’Iran al Golfo, dall’Africa settentrionale al Sahel. Da lago europeo il Mediterraneo è diventato il centro di interessi di potenze globali. Uno sguardo al risiko cinese dalla sedicesima edizione della TOChina Summer School

Alla luce della sempre maggiore presenza cinese nel Mediterraneo e della crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti, ricercatori provenienti da tutta la regione si sono riuniti per una tavola rotonda presieduta dal direttore del ChinaMed Project, Enrico Fardella (John Cabot University), durante la sedicesima edizione della TOChina Summer School. Due i temi al centro della discussione: lo stato attuale dei rapporti tra i Paesi del Mediterraneo allargato e Pechino, e la posizione assunta dai Paesi della regione di fronte alle relazioni sempre più difficili fra Cina e Stati Uniti.

Secondo Aelius Parchami (Royal Military Academy Sandhurst), le relazioni tra Cina e Iran sono di fatto superficiali e ambigue date le sostanziali differenze ideologiche ed il ruolo “scomodo” giocato dagli Stati Uniti. Queste differenze rimangono nonostante l’accordo di cooperazione venticinquennale firmato l’anno scorso.

Pechino fornisce sicuramente un grande aiuto all’economia iraniana con i suoi acquisti di petrolio greggio che aggirano le sanzioni americane. Tuttavia, a Teheran nessuno si fida del modello cinese. Per la leadership iraniana, la Cina è uno stato capitalista pseudocomunista i cui principi sono contrari all’Islam.

Per i riformisti e gli oppositori politici, il suo denaro e le sue tecnologie rendono Pechino complice della repressione portata avanti dal regime iraniano. Comunque, ha sottolineato Parchami, il sospetto è reciproco, specialmente sulla questione nucleare. Su questo tema i cinesi sono allineati con gli americani: anche Pechino è preoccupata dalla possibile destabilizzazione regionale che l’Iran potrebbe causare.

Parchami ha definito gli Stati Uniti come il vero fulcro delle relazioni sino-iraniane. Nei confronti di Washington, Cina e Iran si sfruttano a vicenda per portare avanti i loro interessi e contenere il nemico comune. Mentre Teheran minaccia di gravitare verso la Cina durante i negoziati con l’Occidente, Pechino sfrutta l’Iran per rinegoziare gli accordi con gli Stati Uniti e con gli attori regionali ostili alla Repubblica Islamica.

Spostandosi dall’altra parte del Golfo, Mohammed Al-Sudairi (King Faisal Center for Research and Islamic Studies) ha discusso la posizione saudita. Anche se ha stabilito rapporti diplomatici con Pechino solo nel 1990, l’Arabia Saudita ha lanciato dalla metà degli anni 2000 una “strategia verso l’Est” fortemente incentrata sulla cooperazione economica con la Cina.

Questo riorientamento è stato facilitato dalla liberalizzazione economica e dalla soppressione delle correnti ideologiche più estreme. Ciò ha permesso a Riad di minimizzare questioni importanti per molti musulmani come lo Xinjiang, consentendo al regno saudita di consolidare il ruolo di Pechino come principale partner energetico. I due paesi stanno addirittura trattando per realizzare dei contratti energetici in yuan invece che in dollari, sollevando il timore che il “petroyuan” finisca per sostituire il petrodollaro in un futuro non troppo lontano.

Al-Sudairi ritiene tuttavia questi timori infondati, notando come sia la Cina che gli Stati Uniti non siano riusciti a convincere Riad a scegliere uno schieramento. L’Arabia Saudita, infatti, ha deciso di adottare una politica di “né est, né ovest”, focalizzata sui propri interessi nazionali ed il mantenimento di buone relazioni con più parti. Lo studioso ha anche ricordato che i principali partner di Riad nell’ambito delle tecnologie d’avanguardia rimangono gli Stati Uniti e la Germania nonostante la crescente importanza economica e tecnologica della Cina.

Come l’Arabia Saudita, anche Israele vede la rivalità sino-americana come una questione importante, ma secondaria rispetto alle dinamiche regionali. Brandon Friedman (Moshe Dayan Center dell’Università di Tel Aviv) ha infatti spiegato che la priorità assoluta di Tel Aviv rimane la sicurezza nazionale, la quale è intrinsecamente legata ai suoi rapporti regionali ora agevolati dagli Accordi di Abramo con gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e il Marocco.

Gli accordi sono un esempio della crescente tendenza alla “regionalizzazione”, ossia l’inclinazione degli stati a privilegiare la cooperazione regionale come “antidoto” ai problemi creati dalla globalizzazione. Ciò ha permesso a Israele di coltivare rapporti con entrambe le superpotenze.

Friedman ha fatto due esempi di come ciò avviene. Il primo è quello della G42, una joint venture cinese-emiratina con partecipazione israeliana attraverso la quale Israele può eludere le pressioni statunitensi e collaborare con Pechino in settori delicati quali l’intelligenza artificiale e la difesa. Il secondo è il forum I2U2, ovvero una specie di nuovo “mini-Quad mediorientale” per rafforzare la cooperazione fra Israele, Emirati Arabi Uniti, India e Stati Uniti.

Yahia Zoubir (Kedge Business School e Middle East Council on Global Affairs) ha invece sottolineato come i legami tra Cina e Algeria vadano oltre le pur importanti radici storiche. Nonostante Algeri abbia adottato una politica estera più pragmatica dalla fine della guerra fredda, le relazioni economiche, politiche e militari sino-algerine hanno infatti continuato a rafforzarsi portando nel 2014 l’Algeria a diventare il primo stato arabo con cui la Cina ha stabilito un partenariato strategico globale.

Per Zoubir, c’è una convergenza tra Cina e Algeria anche a livello internazionale che, almeno in parte, è stata propiziata dagli Accordi di Abramo. Con tali accordi, infatti, gli Stati Uniti hanno riconosciuto la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale in cambio della normalizzazione dei rapporti tra Marocco ed Israele. Algeri, che non accetta le rivendicazioni territoriali marocchine, ha percepito gli Accordi come una minaccia dell’Occidente e, in risposta, si è avvicinata alla Cina e alla Russia.

Sulla guerra in Ucraina, l’Algeria ha adottato una posizione uguale a quella cinese, che parte dall’esistenza di una provocazione occidentale e deplora la “politicizzazione” dei diritti umani. Per Zoubir, l’Algeria, come tutti gli stati del Maghreb, è contraria all’idea di scegliere uno schieramento. Infatti, recentemente l’Algeria ha anche rilanciato l’idea di rivitalizzare il Movimento dei paesi non allineati.

Andrea Ghiselli (Fudan University e TOChina Hub) ha analizzato il ruolo che l’Italia svolge nel Mediterraneo in un contesto che vede la Cina sempre più presente. Lo studioso ha ricordato come i rapporti tra Roma e Pechino siano cambiati dopo l’apice toccato nel 2019 con la firma del Memorandum sulla Nuova Via della Seta. Oggigiorno, l’Italia si è chiaramente riallineata con i partner europei e con gli Stati Uniti e Mario Draghi, secondo Ghiselli, ha trovato un buon equilibrio nei confronti della Cina, evitando atteggiamenti troppo critici da un lato e adottando un comportamento molto fermo nel controllare e bloccare gli investimenti cinesi potenzialmente pericolosi per la sicurezza nazionale dall’altro.

Per Ghiselli c’è però un elemento sconcertante nell’approccio non solo italiano ma anche europeo verso Pechino: il mancato riconoscimento che la Cina non è un paese distante, ma un paese di fatto ben presente nel Mediterraneo. Infatti, come emerge dai dati raccolti nel contesto del ChinaMed Project, il ruolo cinese nel Mediterraneo non si limita più al commercio da tempo, come dimostrato anche dalla presenza di contingenti di caschi blu italiani e cinesi nella United Nations Interim Force in Lebanon.

Nella Strategia di sicurezza e difesa per il Mediterraneo pubblicata dal ministero della Difesa il mese scorso, l’Italia sembra aver finalmente riconosciuto la Cina come un attore nel contesto del Mediterraneo. Il rapporto include infatti un passaggio che sottolinea per la prima volta come la Cina stia acquisendo nel Mediterraneo una presenza economica, commerciale e persino militare sempre maggiore. Anche se quella di Pechino non è descritta come una presenza destabilizzante, specialmente se confrontata con quella russa, il ministero della Difesa ritiene che essa rappresenti una possibile sfida. Nonostante ciò, l’attenzione dell’Italia e dell’Europa è concentrata sulla guerra in Ucraina e, secondo Ghiselli, non ci sono da aspettarsi cambiamenti fondamentali nel come la Cina venga percepita a Roma e Bruxelles al momento.

Al termine della tavola rotonda, Andrew Scobell (U.S. Institute of Peace) ha commentato gli interventi dei partecipanti, notando come Washington e Pechino spesso si dimentichino che anche paesi più piccoli, come quelli del Mediterraneo, abbiano il potere di agire attivamente per proteggere e perseguire i propri interessi mantenendo al contempo una certa flessibilità.

Gli statunitensi, in particolare, presumono che tutti condividano il loro punto di vista sulla Cina. Tuttavia, la verità è che dinamiche globali come la rivalità sino-americana hanno importanza per gli altri paesi solo nella misura in cui influenzano l’ordine regionale. Lo stesso vale per il conflitto in Ucraina e le sue ripercussioni economiche e politiche che, combinati al graduale declino della globalizzazione, stanno solo accelerando il processo di regionalizzazione in atto già da tempo in Medio Oriente.



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