Entro il 2030 2 milioni di lavoratori in meno racconta l’Istat nelle sue ultime rilevazioni. Il ritratto di un’Italia che dovrà fare fronte ai gravi effetti della crisi demografica, con una situazione che potrà solo che peggiorare nel corso del tempo. Tre interventi possibili
Fino a qualche tempo fa, soprattutto all’interno di alcuni circoli politici, si parlava di decrescita felice quasi come di un’opzione auspicabile per il nostro Paese. Ora, ammesso che un tale ossimoro possa realmente rappresentare un vero desiderata per qualsiasi società, è evidente che, dati alla mano, l’Italia si trovi piuttosto in prossimità di un “tracollo infelice”. Lasciando per ora da parte eventuali considerazioni sull’incidenza che l’ennesima crisi di governo avrà sull’economia e sulla società, è l’Istat a certificare dei dati che lasciano ben poco margine di discussione. Secondo le rilevazioni dell’Istituto di statistica, infatti, entro il 2030, l’Italia dovrà fare fronte ai gravi effetti della crisi demografica che si tradurranno in quasi due milioni di lavoratori in meno. Secondo le proiezioni ad oggi disponibili poi, la situazione potrà solo che peggiorare nel corso del tempo e nel 2070 mancheranno all’appello ben tredici milioni di lavoratori. Il tutto in uno scenario in cui il numero dei cittadini stessi sarà fortemente contratto mentre l’età media della società sarà sbilanciata verso una fascia decisamente matura.
Secondo quanto evidenziato dalla ricerca, tale crisi demografica e occupazione causerà da un lato una sorta di redistribuzione della popolazione, con territori capaci di reggere meglio l’urto dell’impoverimento del capitale umano e dall’altro con un copioso allargamento della forbice di disuguaglianza tra Nord e Sud, ormai di fatto incolmabile a queste condizioni. Inoltre, il progressivo invecchiamento della popolazione non può che gravare ulteriormente sul sistema previdenziale italiano che già oggi fa fatica, causando attriti sociali e pericolosi ulteriori disavanzi di bilancio
Il trend nel breve periodo è ormai segnato. Troppo il tempo necessario affinchè anche un’immediata inversione di rotta del tasso di natalità possa incidere realmente accrescendo la forza lavoro entro il prossimo decennio. Si tratta di una realtà che dovremo accettare ed imparare a gestire cercando anche di fare il possibile per invertire ciò che ad oggi è ineluttabile. A questo proposito, sarebbero sostanzialmente tre le principali linee d’azione da adottare e di cui ogni governo e amministrazione locale dovrebbe farsi carico. La prima riguarda una rinnovata capacità di attrarre i giovani talenti attraverso allettanti opportunità lavorative sia dal punto di vista della crescita professionale sia dal lato economico. L’Italia è famosa per il fenomeno dei cervelli in fuga e sarebbe determinante non solo cercare di trattenere quelle risorse che potremmo potenzialmente perdere ma anche favorire il ritorno di quelle migliaia di persone che sono andate a fare esperienze all’estero. Tale prima iniziativa avrebbe il vantaggio di produrre evidenti ed immediati benefici in termini qualitativi e quantitativi anche se non sarebbe certo sufficiente a frenare l’emorragia di competenze di cui abbiamo bisogno.
La seconda iniziativa da adottare rientra nel più ampio ragionamento delle politiche sull’immigrazione e la cittadinanza. Inutile girarci attorno, l’Italia è un Paese che ha bisogno di immigrati, soprattutto qualificati, da inserire nel sistema economico nazionale. Sono finiti i tempi in cui l’immigrazione era un fenomeno che ci riguardava solo marginalmente. Ora è necessario fare i conti con la realtà e non solo accettare ma anche accompagnare la costituzione di una società multiculturale. Così come il precedente punto anche questo potrebbe produrre effetti sia di breve che di lungo periodo, assicurando inoltre una sostenibilità nel tempo dei sistemi produttivo e previdenziale.
Il terzo segmento di interventi riguarda, infine, le politiche di incentivo alla natalità, al lavoro e alle giovani coppie. I giovani in Italia non sono tutti bamboccioni ma sono in gran parte intimoriti dall’idea di non avere reali e sicure prospettive per il futuro. Ciò non fa altro che – nel migliore dei casi – rallentare l’ingresso nel mondo del lavoro e ridurre, se non perdere del tutto, l’idea e la possibilità di mettere su famiglia. Un mercato del lavoro ancora fortemente ingessato, la quasi impossibilità di accedere a contratti seri e adeguatamente retribuiti frenano a cascata ogni velleità di stabilire una famiglia: impossibilitati a pagare un affitto, un mutuo o a far fronte ad altri generi di spese. La verità è che al di là del reddito di cittadinanza la maggior parte dei giovani italiani non sono messi nelle condizioni di sostenersi, di fare investimenti e, in generale, di fare progetti ed avere aspettative che vadano ben poco al di là del semplice sogno.
Incentivare la natalità, il lavoro giovanile e femminile e offrire crediti e agevolazioni alle coppie (dal permessi ai congedi, dai reali bonus per l’educazione alla sanità) sono iniziative che spettano solo e soltanto ad uno Stato che, lungi dall’essere paternalista, deve però estendere il welfare nel modo più produttivo possibile, ovvero in quelle iniziative che rappresentano dei veri e propri investimenti nella sostenibilità stessa del sistema: perché i lavoratori di oggi pagano tasse per i servizi pubblici e saranno poi i pensionati di domani a loro volta sostenuti da altre classi produttive. Tale meccanismo è un circolo che va costantemente oliato ed alimentato, pena la rottura di una catena che altrimenti è quasi impossibile riannodare e, purtroppo, i primi sfilacciamenti sono già più che evidenti.