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Regolamentazione delle lobby, ultime notizie dal fronte europeo

L’analisi della Commissione europea traccia una fotografia puntuale dell’attuale carente quadro normativo in materia di lobbying, evidenziando come la frammentazione delle regole esistenti renda del tutto inefficace un monitoraggio dei rapporti tra portatori di interessi e decisori pubblici. L’intervento di Federico Anghelè, direttore di The Good Lobby

Ce lo chiede l’Europa. Per l’ennesima volta, le istituzioni internazionali raccomandano all’Italia di introdurre una regolamentazione sul lobbying accompagnata da interventi normativi che prevengano i conflitti di interessi e rafforzino la trasparenza delle donazioni alla politica. Dopo l’Ocse, l’Osce e il Consiglio d’Europa, questa volta è la Commissione europea che nel suo ormai molto atteso report annuale sullo stato di diritto ha ricordato al nostro Paese la necessità di approvare una legge sul lobbying che preveda un registro della trasparenza e renda pubblica l’impronta legislativa.

L’analisi della Commissione europea – che tra l’altro chiede all’Italia di proseguire l’impegno nella digitalizzazione anche in chiave anticorruzione – traccia una fotografia puntuale dell’attuale carente quadro normativo in materia di lobbying, evidenziando come la frammentazione delle regole esistenti renda del tutto inefficace un monitoraggio dei rapporti tra portatori di interessi e decisori pubblici. Il rapporto non nasconde i limiti del testo approvato lo scorso gennaio dalla Camera, a partire dalle eccezioni troppo ampie che permetterebbero alle organizzazioni datoriali, ai sindacati e alle confessioni religiose di essere esonerate dall’iscrizione al registro della trasparenza obbligatorio.

Tra gli altri punti evidenziati dalla Commissione europea, anche le deboli prescrizioni in materia di porte girevoli, che prevederebbero un anno di raffreddamento prima dell’iscrizione al registro (e quindi allo svolgimento di attività di lobbying) per gli ex membri del governo, e nulla per i parlamentari. Come i leak su Uber pubblicati nei giorni scorsi dalla stampa internazionale insegnano, un periodo di raffreddamento per chi ha ricoperto incarichi politici rilevanti è necessario così come è necessario che le autorità competenti siano messe nelle condizioni di poter verificare puntualmente il rispetto delle regole. Il caso di Neelie Kroes, ex commissaria europea olandese che ha deliberatamente svolto attività a favore di Uber cessato il suo incarico pubblico senza aver dichiarato alla Commissione europea il suo ruolo di consulente, e quindi senza aver ricevuto alcuna autorizzazione, mette in luce l’inefficacia delle prescrizioni europee sul revolving doors in mancanza di un’autorità che sia chiamata a monitorare e sanzionare eventuali violazioni.

Non va dimenticato che nel report sullo stato di diritto si fa un accenno anche alla cosiddetta legislative footprint che dovrebbe accompagnare ogni nuovo provvedimento normativo mettendo in chiaro tutti i contributi ricevuti dai portatori di interessi e facendo perciò anche emergere gli attori non ascoltati. L’accenno fatto dalla Commissione europea è tanto più importante perché la legge approvata dalla Camera lo scorso 12 gennaio e ora al vaglio della Commissione Affari Costituzionali del Senato che avrebbe dovuto portare in Aula il testo prima della pausa estiva ha alcuni limiti strutturali. A cui la coalizione Lobbying4Change guidata da The Good Lobby e formata da 40 organizzazioni della società civile impegnate a rendere più trasparenti e inclusivi i processi decisionali ha da tempo chiesto di porre rimedio.

Senza dubbio, la legge poggia molto sullo strumento del registro della trasparenza a cui si dovrebbero iscrivere tutti i portatori di interessi impegnati a portare il loro punto di vista non solo al governo e ai parlamentari, ma anche alle giunte e ai consiglieri regionali e dei comuni capoluogo oltreché delle autorità indipendenti. Facendo ciò, la legge sposta gli oneri esclusivamente sui lobbisti esonerando di fatto le istituzioni da qualsiasi responsabilità. Sappiamo però che una normativa efficace si alimenta di una pluralità di strumenti (dalle agende degli incontri rese pubbliche dai decision makers all’impronta legislativa e alla piena trasparenza delle donazioni alla politica) che rendano accountable anche le istituzioni. Alle quali spetterebbe inoltre il ruolo di promozione della partecipazione ai processi decisionali.

Dovrebbe infatti essere interesse dei decisori pubblici quello di acquisire pareri, dati e informazioni utili a conoscere l’impatto di una politica sulla quale si intenda intervenire. Per raggiungere questo risultato, servirebbero premialità per gli iscritti al registro della trasparenza. La logica dovrebbe essere: chi si iscrive in piena trasparenza, ha poi il diritto a essere consultato e ad accedere in via preferenziale alle bozze di legge e di regolamento predisposte dalle istituzioni. I vantaggi sarebbero su entrambi i fronti: da una parte i portatori di interessi sarebbero meno refrattari a sottoporsi a stringenti regole di trasparenza; dall’altra, i policy makers potrebbero contare sistematicamente sui contributi dei gruppi di interesse. Garantendosi così una visione più articolata dell’impatto di una politica su territori specifici, comunità, comparti e attori economici. A guadagnarne sarebbe la qualità stessa delle scelte pubbliche.

Siamo in molti a chiedere che una necessaria e sacrosanta regolamentazione del lobbying sia frutto di un’interpretazione più aperta e aggiornata del rapporto tra istituzioni e stakeholder. Molti senatori hanno dimostrato di voler correggere i limiti del testo licenziato a gennaio dalla Camera presentando emendamenti migliorativi. Se la legislatura arriverà al suo naturale compimento, c’è spazio per rendere più efficace la norma, accogliendo le richieste e segnalazioni degli esperti e dei professionisti del settore e tenendo fede all’approccio più estensivo a cui Bruxelles si è riferita nel suo rapporto sullo stato di diritto.

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