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Nucleare, è tempo di darci una mossa. L’analisi di Pennisi

L’industria nucleare europea, e anche americana, ha smesso di aggiornarsi e fatto notevoli passi indietro rispetto ai suoi competitori dell’Europa Orientale e dell’Estremo Oriente. Mancano le maestranze specializzate

L’energia è diventata arma di guerra. Lo mostra a tutto tondo la chiusura temporanea dal gasdotto che collega la Federazione Russa con la Germania Federale (ufficialmente, per motivi di riparazione il cui pezzo più importante deve venire dal Canada, mettendo così a repentaglio le sanzioni). Affermazioni molto esplicite del ministro degli Esteri russo sostengono che “l’operazione militare speciale” scatenata dalla Federazione Russa è pronta a disporre di tutti gli strumenti possibili; è stato anche minacciato l’impiego della bomba atomica.

Dato che l’energia sta assumendo sempre più un valore strategico, occorre fare una riflessione sull’energia nucleare (a fini civili) che diversi Paesi europei, dopo l’incidente di Chernobyl nel 1986, hanno abbandonato o in toto (come l’Italia) o in parte (come Spagna e Portogallo) o sulla base di un programma a medio-lungo termine del settore (come in Germania).

Con le tecnologie di oggi, i rischi di sicurezza relativi agli impianti nucleari sono notevolmente diminuiti rispetto al 1986-88, quando il dibattito fu aspro e, nel nostro Paese, portò anche a un referendum che venne interpretato come una rinuncia degli elettori a questa fonte di energia.

Ora, l’ostacolo maggiore sono i costi e i tempi di realizzazione nei nuovi impianti. Il caso più eclatante è quello del progetto in costruzione nei pressi di Bristol. Quando venne stipulato il contratto con Edf Energy nel 2013, la stima è che sarebbe stato in funzione nel 2010. Nove anni dopo non è ancora chiaro quando verrà completato: Edf Energy stima che ci vorranno almeno altri due anni, la previsione di spesa è cresciuta di 10 miliardi di sterline, quel che è peggio, il costo di produzione di un megawattora di energia non sarà 95 sterline come preventivato alla stipula nel 2013 ma almeno 125. Le vicende dell’impianto (chiamato scherzosamente Big Carl) è stata una delle determinanti che hanno portato alla fine del Governo Johnson.

Il problema non è solo del nucleare britannico. In Finlandia (l’impianto EPRS nei pressi di Olkiluoto) e in Francia (quello chiamato Flamanville C) sono in condizioni analoghe: iniziati rispettivamente nel 2005 e nel 2007, non si sa quando verranno terminati; nel frattempo i costi lievitano. Analogamente, negli Stati Uniti, l’impianto in costruzione a Vogtle sembra ancora in mare aperto.

La mia spiegazione personale è che, dopo lo shock di Chernobyl, l’industria nucleare europea, e anche americana, ha smesso di aggiornarsi e fatto notevoli passi indietro rispetto ai suoi competitori dell’Europa Orientale e dell’Estremo Oriente. Mancano le maestranze specializzate.

Interessante notare che prima della guerra in Ucraina, Rosato (l’azienda statale della Federazione Russa responsabile dell’impiantistica nucleare) aveva in programma la costruzione di quattro reattori nell’Unione europea e che alla vigilia dell’operazione militare speciale, le autorità di regolazione della Gran Bretagna avevano ammesso la cinese Hoalong One per la gara di appalto di un reattore nell’Essex.

Nonostante guerra e sanzioni, imprese russe stanno costruendo nuovi impianti nucleari in Ungheria. La Bulgaria ha, invece, escluso i russi dalla gara per un impianto al confine settentrionale.

La Corea del Sud, che ha una solida industria nucleare ed è molto attiva negli Emirati arabi e in Indonesia, sta guardando con interesse all’Europa dato che espone costi più bassi e tempi di lavoro più brevi.

È tempo di darci una mossa. A livello italiano ed europeo.


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