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Perché i taxi protestano? Le due ragioni principali

Ad accendere le manifestazioni sono stati il principio di territorialità e l’inserimento nel DDL Concorrenza di una norma che regola le piattaforme, che però già esiste e necessiterebbe solo di decreti attuativi (mai adottati). Il punto di Marco Giustiniani, partner dello studio legale Pavia e Ansaldo

Queste prime settimane d’estate hanno fatto registrare non solo temperature più elevate della media stagionale, ma anche il riaffiorare di un clima sociale incandescente in un settore che – dopo due anni di pandemia – aveva iniziato a recuperare vitalità in modo inversamente proporzionale all’affievolirsi delle limitazioni generali alla mobilità: il settore del trasporto pubblico locale non di linea.

Come noto, il settore si divide in due comparti tra loro ‘cugini’, ma ben distinti: il servizio di trasporto da piazza a tariffa calmierata (i taxi); e il servizio su prenotazione a tariffa libera (il noleggio con conducente o, in breve, NCC). Entrambi i servizi possono essere resi solo da soggetti in possesso – rispettivamente – di licenze taxi e autorizzazioni NCC, rilasciate dai Comuni sulla base di parametri principalmente connessi alla popolazione residente e ai flussi turistici per stabilirne il numero massimo.

La miccia che ha acceso le proteste che hanno bloccato il servizio taxi risale, tuttavia, al 3 dicembre dello scorso anno, data in cui il Governo ha presentato in Parlamento il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza. Nel testo, infatti, è inserito un articolo (il n. 8, poi slittato al 10 con l’approvazione in prima lettura da parte del Senato) che contiene una delega al Governo per una integrale revisione della normativa del settore.

In altri termini, entro sei mesi dall’approvazione del DDL Concorrenza, il Governo sarà delegato a riscrivere l’intera normativa che regola i servizi taxi e NCC prevedendo (si legge tra i principi e criteri direttivi della delega): un “adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante l’uso di applicazioni web” (ad esempio, l’app UBER o altre app di interconnessione utente-operatore); e una “razionalizzazione della normativa, ivi compresa quella relativa ai vincoli territoriali”.

Se questa è la proposta del Governo, perché i taxi protestano domandando lo stralcio dell’art. 10?

Le ragioni sono essenzialmente due e intimamente collegate tra loro.

In primo luogo, la volontà di mantenere la natura locale dei servizi taxi e NCC (c.d. principio di territorialità) per contrastare i fenomeni di abusivismo che affliggono il settore, con conseguente tutela del valore economico delle licenze e delle autorizzazioni. In secondo luogo, il mantenimento di una base – in certo senso – artigiana e diffusa dell’offerta dei servizi che non sia agevolmente fagocitabile da grandi realtà economiche multinazionali che, nel medio periodo, sarebbero in grado di trasformare il settore in un oligopolio se non addirittura in un monopolio.

Per comprendere tali ragioni occorre aprire una breve parentesi su come ‘funziona’ l’attuale normativa taxi/NCC. In sintesi, la legge che ‘guida’ da trent’anni il settore – assieme al Codice della Strada – è la n. 21/92. L’ultimo intervento di riforma del settore risale, tuttavia, a poco più di tre anni fa. Si tratta dell’art. 10-bis del D.L. n. 135/18, convertito con legge n. 12/19, che ha introdotto nella Legge 21 una serie di modifiche in senso pro-concorrenziale, nonché finalizzate al contrasto di fenomeni di abusivismo. La riforma del 2019 prevedeva, poi, l’approvazione di tre decreti ministeriali attuativi, uno dei quali destinato a disciplinare in dettaglio l’utilizzo delle piattaforme tecnologiche. Tali decreti non sono ancora stati approvati.

In questo contesto, a partire dalla metà degli anni 2000, il settore è stato interessato da un consistente fenomeno di abusivismo; intendendosi per tale sia l’esercizio dei servizi taxi e (principalmente) NCC, senza essere in possesso della relativa licenza o autorizzazione; sia l’esercizio dei richiamati servizi da parte di operatori, sì, autorizzati, ma che non rispettano gli obblighi prescritti dalla normativa settoriale (in particolare, acquisendo l’autorizzazione da amministrazioni comunali periferiche e, poi, omettendo di servire le comunità locali, bensì trasferendosi nei più grandi centri urbani).

Già nel 2010, Roma Servizi per la Mobilità (l’Agenzia della Mobilità di Roma Capitale), arrivava a definire come “drogato” il mercato capitolino del noleggio con conducente, in quanto ‘infiltrato’ – in un rapporto di circa 1 a 6 – da operatori non autorizzati dal Comune di Roma e che avrebbero, pertanto, dovuto servire in via preferenziale l’utenza dei comuni che avevano rilasciato le relative autorizzazioni.

Ed è proprio il principio di territorialità il primo dei fuochi che ha riscaldato la canicola sociale di questi giorni. I servizi taxi e NCC sono, infatti, dei servizi di trasporto a natura locale integrativi dei servizi di linea (bus, metro, ecc.). Tra i principi e i criteri direttivi della nuova legge delega proposta dal Governo vi è, tuttavia, una rivisitazione dei c.d. vincoli territoriali. In altri termini, la delega prevede un possibile mutamento di impostazione che astrattamente potrebbe arrivare sino ad escluderne la natura locale.

L’effetto diretto sarebbe, per un verso, la possibile centralizzazione a livello regionale del rilascio delle autorizzazioni/licenze o comunque un affievolimento dei limiti territoriali (con un verosimile incremento dei flussi centripeti degli operatori in direzione dei grandi centri urbani); per un altro verso, una conseguente sanatoria di tutte le licenze e autorizzazioni ad oggi in circolazione, ancorché emesse impropriamente da piccole realtà comunali, ma esercenti l’attività nelle sole aree metropolitane di Roma, Milano, ecc.

L’effetto indiretto sarebbe una perdita di valore economico delle attuali licenze/autorizzazioni che risulterebbe ‘annacquato’ dal numero di nuovi titoli rilasciati o ‘condonati’; nonché una riduzione del numero di ‘corse’ pro capite per tassista con una conseguente spinta alla cessione delle licenze a strutture economiche di maggiori dimensioni, a fronte – magari – di una assunzione dell’operatore come lavoratore dipendente, con conseguente perdita di autonomia.

Fino ad oggi, invece, il legislatore ha sempre mantenuto la strutturazione locale dei servizi, individuando come bacini territoriali ottimali: quello comunale, per i taxi; quello provinciale, per gli NCC.

La giurisprudenza ha confermato la legittimità di tale approccio e dell’equilibrio normativo realizzato tra tutela della concorrenza, garanzia della fruibilità dei servizi e diritti dei lavoratori; e ciò sia sotto il profilo del diritto UE e della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo (in questo senso, due sentenze della Corte di Giustizia di Lussemburgo del febbraio 2014 che hanno anche confermato la non sussistenza di un obbligo di liberalizzazione discendente dall’Unione Europea); sia sotto il profilo costituzionale, come statuito dalla Consulta con una sentenza del marzo 2020; sia sotto il profilo del diritto amministrativo interno, con una giurisprudenza pressoché uniforme dei Tar e del Consiglio di Stato registrata a partire dal 2016 sino al luglio di quest’anno a cui ‘risale’ l’ultima sentenza che ha dichiarato la piena legittimità dell’attuale impianto normativo; sia sotto il profilo della concorrenza, come confermato dalle pronunce dei Tribunali Civili di Milano e di Torino nei noti contenziosi che hanno visto contrapposte le organizzazioni sindacali dei tassisti contro il Gruppo UBER per il servizio di trasporto denominato UBER-pop.

La domanda che si pongono coloro che oggi operano nel settore è, dunque, la seguente: se le norme in vigore funzionano e sono legittime, da dove nasce una l’urgenza di cambiarle tanto da inserire una legge delega ad hoc all’interno degli interventi necessari ai fini di promuovere la concorrenza in Italia?

Ossia dove risiede la ragione di investire risorse pubbliche in una ristrutturazione integrale di un sistema che dopo la modifica a livello centrale, necessiterebbe dell’approvazione di tante leggi ‘territoriali’ quante sono Regioni e Province Autonome nel nostro Paese (essendo la materia del trasporto locale di competenza legislativa regionale e su cui lo Stato mantiene solo una competenza trasversale in materia di concorrenza); e, successivamente, dell’adeguamento di tutti i regolamenti comunali che attualmente disciplinano gli aspetti di dettaglio dei servizi taxi e NCC.

Ed è proprio l’assenza di una risposta ragionevole a questa domanda che conduce al secondo profilo di dubbio sull’operato dell’Esecutivo che ha acceso le proteste di queste settimane: ossia quello dell’inserimento delle Multinazionali nel settore, attraverso la gestione economica di piattaforme tecnologiche di interconnessione tra domanda e offerta di servizi, magari in correlazione con para-servizi di trasporto.

Come detto, la riforma del 2019 già prevede che la funzionalità di tali piattaforme sia oggetto di una disciplina specifica ad opera di un (mai approvato) Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Se così è, l’ulteriore domanda che si pongono le organizzazioni di categoria è la seguente: perché prevedere oggi l’introduzione della medesima disciplina con un atto avente forza di legge, anziché con un d.p.c.m.?

La risposta che si danno le associazioni di categoria questa volta è semplice.

Un d.p.c.m. è un atto normativo di rango secondario che non potrebbe derogare alla legislazione primaria vigente e ai principi ivi contenuti (titolarità personale delle licenze e delle autorizzazioni, territorialità e natura locale dei servizi, distinzione tra servizi su piazza e su prenotazione, ecc.). Al contrario, attraverso una legge o un decreto legislativo l’intero diametro entro cui oggi sono contenuti i diritti, i divieti e gli obblighi che hanno e che devono rispettare coloro che operano nel settore può essere mutato, potenzialmente anche a vantaggio di strutture economiche di maggiori dimensioni in grado di subentrare in una nuova gestione del settore o di uno dei due comparti che lo compone (e a danno dell’altro).

Se queste sono le domande e, in alcuni casi, le risposte; per cercare di raffreddare una inutilmente accesa canicola sociale, il Governo potrebbe forse rivalutare le priorità di intervento su un settore escluso da obblighi di liberalizzazione, non rientrante negli obiettivi del PNRR e che il Consiglio di Stato – con sentenza n. 5756 dell’11 luglio scorso – ha ritenuto scevro da qualsiasi ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale del relativo mercato, accogliendo peraltro un appello del Ministero delle Infrastrutture (e, quindi, del Governo) che oggi invece intende radicalmente modificare quell’assetto che sino a sette giorni fa ha difeso in sede giurisdizionale.

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