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Quanti ghiacci ci restano? Dagli Appennini alle Alpi, dati e allarmi

Permafrost, ghiacci del Polo Nord, strati di Antartide e Groenlandia, superfici montuose ghiacciate e nevose sono tutti ambienti sotto stress termico, erosi dall’aumento delle temperature, come le calotte dal distacco degli iceberg, con il calving accelerato dal caldo. In un secolo e mezzo sono stati erosi, e in parte sciolti, milioni di anni di costruzione di ghiacciai. Estratti dal libro di Erasmo D’Angelis, “Acque d’Italia” (Giunti) che parla del rischio di crolli, inondazioni e frane legate allo scioglimento, proprio come nel caso della Marmolada

Se nel 1873, i simpatici aspiranti suicidi Phileas Fogg e Passepartout di Jules Gabriel Verne ci avessero invitati a salire a bordo della loro mongolfiera per Il giro del mondo in 80 giorni, avremmo potuto ammirare panorami di ghiaccio imparagonabili a quelli di oggi, maestosi ghiacciai vallivi con profonde lingue glaciali distese lungo le valli, la sorprendente cadenza di estesi ghiacciai montani sui versanti montuosi, il brillare di una miriade di glacionevati con piccole masse di ghiaccio sulle creste dei pendii o accatastate in cavità. L’eccezionale gita da surfisti in balia dei venti avrebbe avuto di sotto un mare di bianchi riferimenti precisi.

E oggi? I ghiacci non solo sono al loro minimo storico, ma si stanno sciogliendo a ritmi record da almeno metà del XX secolo. Il team di ricerca guidato dall’ETH di Zurigo e dall’Università di Tolosa ha concluso l’ultimo studio sul ritiro globale dei 217.175 ghiacciai del mondo, esclusi quelli della Groenlandia e dell’Antartide, rilevando diminuzioni quasi ovunque, e dal 2000 perdite complessive da 267 miliardi di tonnellate all’anno di ghiacci, una quantità teoricamente sufficiente a sommergere l’intera Svizzera sotto sei metri d’acqua.

Tra i ghiacciai che si sciolgono più velocemente ci sono quelli dell’Alaska, dell’Islanda e delle nostre Alpi. Ma sta cambiando anche il panorama dei ghiacciai di alta montagna, come quelli sulle catene montuose del Pamir o dell’Hindu Kush e dell’Himalaya.
Il lavoro dei ricercatori del World Glacier Monitoring Service, dell’Inventario digitale dei ghiacciai nato nel 1986 come database di 70 scienziati di ogni continente, e del Randolph Glacier Inventory: a globally complete inventory of glaciers, e di altri osservatori scientifici locali, ci consegna ormai sempre più accurate misurazioni da satelliti nelle 19 regioni del pianeta con ghiacci, di cui le più importanti per estensione sono Alaska, Canada Artico, Groenlandia, Himalaya, isole subAntartiche.

In ogni regione sono monitorate le piattaforme superiori ad un ettaro, e ne sono state geo-localizzate 197.654, con una superficie totale di 727.000 km2, e un volume totale tra i 140.000 e i 170.000 km3. Se si includessero anche i più piccoli ghiacciai, il numero complessivo raddoppierebbe, ma aggiungerebbero, tutti insieme, poco più dell’1% dei ghiacci.
Il volume complessivo dei ghiacciai presenti oggi sulla Terra vale circa 32 milioni di km3 con uno spessore medio di 1.829 m, la profondità massima di 4.776 m e quella minima di 1.306 m. Coprono una superficie pari a circa 16 milioni di km2, per capirci quasi una volta e mezza l’Europa, ma poco più del 3% dei 510.100.000 km2 di superficie del pianeta. Poco meno del 90% dei ghiacci sono in Antartide, poco più del 9% in Groenlandia, e queste sono le due grandi calotte di ghiaccio planetarie, la prima nell’emisfero sud e l’altra nell’emisfero nord. Quella antartica ha una superficie totale di quasi 14 milioni di km2, e di questi appena 280.000 sono liberi stagionalmente dai ghiacci. La Groenlandia invece è occupata dal ghiaccio per l’82% della sua superficie, per 1,71 milioni di km2 con uno spessore medio di oltre 2000 m. Tutti gli altri ghiacci terrestri messi insieme sommano il poco che resta, cioè meno dell’1% del totale.

La verità climatica è nella riduzione delle nostre due nostre tipologie di glaciazione. Non solo di quella continentale, alle latitudini della Groenlandia e dell’Antartide, ma anche di quella montana dei ghiacciai alpini che vedono accorciarsi e sparire nelle valli le loro lingue lunghe e quei calanchi di grandi dimensioni chiamati circhi e crinali. Permafrost, ghiacci del Polo Nord, strati di Antartide e Groenlandia, superfici montuose ghiacciate e nevose sono tutti ambienti sotto stress termico, erosi dall’aumento delle temperature, come le calotte dal distacco degli iceberg, con il calving accelerato dal caldo. Fenomeni collocati dai glaciologi fino a pochi anni fa al 2070, oggi sono in corso e le proiezioni anticipano il clou al 2030-40, il punto di non ritorno con il countdown inesorabile iniziato dal 2007.

In tutte le 19 regioni nelle quali sono stati raggruppati i ghiacciai della Terra, il bilancio di massa è negativo, cioè cedono più acqua di quanta non ne trattengano e la neve accumulata non riesce a compensare la quantità di ghiaccio sciolto. In appena un secolo e mezzo sono stati erosi, e in parte sciolti, milioni di anni di costruzione di ghiacciai, con un formidabile sprint negli ultimi 70 anni per la forte immissione di CO2 nell’atmosfera in Alaska (25%), Groenlandia (12%), alle estremità nord e sud del Canada (10%) e nell’Hindu Kush Himalaya (8%), la macroregione Terzo Polo della Terra, dove è conservata la maggiore riserva di ghiaccio del pianeta dopo le regioni polari, ben 55 mila ghiacciai ridotti a circa 25.000, contenenti circa 51 km3 di ghiacci e dove l’acqua di disgelo alimenta ormai il Gange, il Brahmaputra e l’Indo. Aree in cui è già punto di non ritorno e dove, anche se azzerassimo tutte le emissioni di carbonio, continueremmo a vedere sciogliersi miliardi di tonnellate di ghiaccio. Se con la temperatura aumentata di 1,5 °C nel 2100 la previsione è di un terzo dei ghiacciai sciolti, saranno due terzi a +2°C, e il loro contributo alla risalita del livello degli oceani aumenterà drammaticamente i problemi.

Effetto scioglimento: piove sul bagnato

Ai margini delle calotte sugli oceani, le lingue glaciali staccano iceberg al ritmo di scioglimento di 239 km3 all’anno per l’Antartide. Lo stesso fenomeno è in atto in Groenlandia dove in media negli ultimi 20 anni lo spessore dei ghiacciai si è ridotto di circa 50 cm l’anno, sui ghiacciai dell’Alaska come il Malaspina, grande quasi 4000 km3, sul Jostedals brä della Norvegia da 940 km3 e sul Siacen del Karakorum, più o meno della stessa dimensione. Un effetto della fusione del ghiacciaio Thwaites nell’Antartide occidentale – una massa di ghiaccio delle dimensioni della Florida – è la mastodontica grotta bianca grande come i due terzi della penisola di Manhattan e alta quasi 300 m. Come a dire, sotto la più imponente massa di ghiaccio nell’Antartide, quasi niente. La scoperta del vuoto fa il paio con la fusione negli ultimi tre anni di 14 miliardi di tonnellate di ghiacci, e con l’arretramento della Grounding Line, la linea di confine tra ghiacci “ancorati” e “galleggianti”, passata da 0,6 km all’anno fino al 2011 a 1,2 km dal 2012 a oggi.

E anche nell’Artico, lo spessore dei ghiacci è passato dai 3 m dei primi anni Novanta ai circa 1,5 di oggi. Dimezzato. Il Polo Nord ne ha perso in 40 anni il 40%, e dalla Norvegia alla Siberia orientale le immense spaccature nel pack regalano immagini mai viste di vaste acque libere e soleggiate, sospinte dal moto ondoso. Con gli iceberg che si staccano, il ghiacciaio islandese Breidamerkurjokull che perde in media dai 100 ai 300 m di lunghezza all’anno, ha generato il lago Jokulsarlon, ora il più grande d’Islanda. E i ricercatori dell’University of Iceland studiano campioni di terra mai vista prima d’ora, quella lasciata scoperta dal ritiro del ghiacciaio.
E invece di nevicare, piove sul bagnato.

Il 14 agosto 2021, per la prima volta dall’inizio dei rilevamenti climatici, al posto dei cristalli di ghiaccio è scesa pioggia sulla vetta della calotta glaciale della Groenlandia. I ricercatori della stazione US National Science Foundation, dall’osservatorio posto sul picco di 3.216 m della calotta, hanno stimato in 3 giorni di precipitazioni piovose impreviste e mai viste prima circa 7 miliardi di tonnellate di acqua scendere sui ghiacci. Le temperature, normalmente molto sotto lo zero, in quei tre giorni eccezionalmente caldi superavano di 18 gradi la media, e la pioggia ha aumentato le fusioni in corso facendo nascere fiumi che scavano ampi canyon e danno vita a cascate anche delle dimensioni del Niagara.

Peter Wadhams, tra i massimi studiosi di ghiacci artici marini, nonché capo del Polar Ocean Physics Group all’università di Cambridge, un pioniere con alle spalle oltre 40 spedizioni al Polo Nord e viaggi artici sottomarini su sommergibili militari, dagli anni Ottanta dimostra l’assottigliamento dello strato di ghiaccio e, nell’intervista riportata da Luca Fraioli su “la Repubblica” il 6 agosto 2021, avverte: “Le misurazioni da satellite rivelano che si sta sciogliendo il 57% della calotta, una percentuale impressionante. Ma quello a cui assisto è senza precedenti. Ormai è un continuo susseguirsi di record, e nei giorni in cui ero lì ci sono state temperature di 21 gradi, una cosa incredibile. E nel solo mese di luglio si sono sciolte in mare 200 miliardi di tonnellate di ghiaccio. La Groenlandia, invece, è ancora una gran serbatoio di ghiaccio e sarà la principale causa di innalzamento dei mari, con grandi problemi per le città costiere”.

La ritirata dei nostri ghiacci alpini

Da fine Ottocento ad oggi, oltre 200 ghiacciai alpini sono scomparsi lasciando il posto a detriti e rocce. Il confronto con le fotografie in bianco e nero del secolo scorso non lascia dubbi sulla fase di riduzione accelerata. Ora c’è il bosco che colonizza i suoli un tempo perennemente gelati, e la pietra nuda affiora dove c’era il ghiacciaio. Il rapido ritirarsi delle fronti glaciali è una perdita di panorami e paesaggi emozionanti oltreché di importanti riserve di acqua dolce, e il terreno-permafrost degradato causa instabilità sui versanti.

Ma tant’è. Sui nostri amati monti innevati, ghiacci sempre più esili luccicano solo sulle vette alpine. Dall’Alta Langa a Passo di Cadibona, sui 1.300 km di catena appenninica resiste il solo fiero ghiacciaio del Calderone nella conca del massiccio abruzzese del Gran Sasso d’Italia, a 2912 m. Come dovremmo ammirarlo lo ricorda l’ingegnere militare bolognese Francesco De Marchi, l’avventuroso scalatore animato dalla curiosità scientifica dell’homo novus rinascimentale che, il 19 agosto del 1573, alla bella età di 69 anni, si arrampicò sul versante settentrionale del Corno Grande e lo descrisse con enfasi nel suo manoscritto In cima al Corno Monte:
“Tutti quelli che non sono stati alla cima dicano che vi è una Fontana in cima. Dico che non vi è Fontana nessuna, ma che vi è bene un gran vallone tra il Monte di Santo Niccola et il Corno Monte, dove sempre vi è la nieve alta quindeci o venti piedi, e più in alcun luocho dove la nieve e ghiaccio sta perpetuamente. E quest’è una quantità d’un grosso miglio di lunghezza, e di larghezza più di mezzo miglio, della qual sempre puoco o assai se ne disfà”.

A vederlo oggi, il ghiacciaio più a Sud d’Europa, che un secolo fa era ancora spesso decine di metri e riempiva tutto il Calderone con tanto di fronte e lingua, al punto che per solcarlo servivano ramponi e sci, ci sbatte in faccia l’arretramento crudele che però non lo ha sconfitto. Il Corno Grande del Gran Sasso d’Italia, il monte più alto dell’Appennino, è un massiccio con la struttura di un castello, con le sue quattro cime – Vetta Occidentale, Torrione Cambi, Vetta Centrale e Vetta Orientale – che proteggono dal calore del sole l’interna e ombrosa conca del Calderone, esposta a settentrione. È il ghiacciaio più meridionale d’Europa, dopo il completo scioglimento di quello della Sierra Nevada in Spagna, nonostante abbia subìto, dopo anni di fusione continua, l’onta del declassamento nel 2007 in due accumuli di glacionevato, uno superiore e uno inferiore, ricoperti di detrito.

Sotto il detrito oggi il massimo spessore di ghiaccio residuo è comunque di 25 m, 9 in meno del 1994, come ha rilevato l’ultima spedizione scientifica di Legambiente “Carovana dei ghiacci”, con il supporto del Comitato Glaciologico Italiano.
Anche se di dimensioni ridotte, con circa 5 ettari di superficie, ha tutte le caratteristiche morfologiche tipiche dei ghiacciai: crepacci longitudinali e trasversali, morene laterali e frontali. Nelle estati particolarmente calde e con la neve sciolta si presenta coperto da detriti che costituiscono la morena superficiale, i till che proteggono dalla fusione la nostra rarità climatica, l’ultimo residuo dei grandi ghiacciai dei periodi glaciali del Quaternario, tra i 2800 e i 2680 m di altitudine, quando il limite delle nevi perenni sul Gran Sasso è stimato a circa 3100 m di quota.

Ma è solo un segnale tra i tanti del clima cambiato alle alte quote, monitorate dagli intrepidi scienziati del Comitato Glaciologico Italiano, nato nel 1914, che nel primo censimento effettuato dal 1925 al 1927 catalogò 832 ghiacciai che, come tanti festoni, brillavano al sole tra l’Aiguille Blanche du Peutérey e il Grand Pilier d’Angle, sul versante della Brenva nel cuore del Monte Bianco e in tantissime altre cime ricoperte di candide visioni di bellezza e compattezza, che allora neanche lontanamente facevano immaginare la perdita areale del 50%, il 70% della quale negli ultimi calorosi 30 anni. Tra il 1957 e il 1958, quando i glaciologi misurarono nuovamente i nostri ghiacci con più precise strumentazioni, la loro superficie totale risultò ancora abbondante, di 530 km2. Ma nel terzo censimento di fine Novecento identificarono 706 ghiacciai e la misura della superficie totale era scesa a 482 km2.

Il Nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani – curato da Claudio Smiraglia ordinario di Geomorfologia all’Università degli Studi di Milano, Agostino Da Polenza, presidente di Ev-K2-CNR, Guglielmina Diolaiuti dell’avamposto italiano all’Himalaya e Renato Colucci, glaciologo del CNR – elenca oggi 903 corpi glaciali per un totale di 369 km2 di ghiacci sulle vette delle nostre 5 regioni alpine, più l’unico dell’Abruzzo appenninico. L’aumento del numero si deve però alla loro frammentazione che ha ridotto le dimensioni medie a 0,4 km2. Solo in tre superano ancora i 10 km2: Forni nel Parco Nazionale dello Stelvio, Miage nel gruppo valdostano del Monte Bianco, il complesso Adamello-Mandrone tra Lombardia e Trentino.

Imbiancano ancora le Alpi Occidentali i ghiacci del gruppo Monte Bianco, con il Miage di 19 km2, del gruppo del Monte Rosa con il Macugnaga di 13,5 km2 e il ghiacciaio Lys di 10,5 km2, delle Alpi Orientali con i 18 km2 dell’Ortles-Cevedale dei Forni e i 10 km2 del Solda, dell’Adamello dove la Vedretta del Mandrone oggi misura 13,7 km2 ma nel 2003 erano 17,2, scesi nel 2007 a 15,6 e la fusione costante lo sta portando verso i 10 km2, seguendo lo stesso trend di riduzione dei ghiacciai della Presanella, delle Alpi Retiche orientali dove il Malavalle misura 10,3 km2 e delle Alpi Venete con la Marmolada a 3,4 km2.

Le fusioni dei “giganti di ghiaccio” sono monitorate con telerilevamenti da aereo e satellite, tecniche geodetiche e interferometriche, prospezioni geofisiche, sondaggi radar, perforazioni. E spuntano sorprese. Come quella del giugno 2002 quando, sotto il Monte Rosa, nel mezzo del ghiacciaio del Belvedere di Macugnaga, si formò il più grande bacino naturale delle Alpi, il lago “Effimero” che cresce e si riduce seguendo le fasi di modifica del ghiacciaio che, tra crepacci e seracchi, gli fornisce anche curiosi piccoli iceberg.

Le sue acque variano col variare delle condizioni climatiche e delle precipitazioni, e lo scioglimento rapido di nevi e ghiacci lo portò anche ad avere una superficie di 166.000 m2 con un volume di oltre 3 milioni di m3 di acqua a profondità massima di 57 m. Il timore di un collasso a valle lo fa svuotare grazie a una condotta allacciata per precauzione dalla Protezione Civile, che lo tiene nei limiti di sicurezza a 2.160 m di quota. Uno dei problemi indotti dalle fusioni e da fronteggiare è proprio il rischio di inondazioni, di crolli di blocchi come nel 1998 dal Coolidge sul Monviso, e oggi nella zona di Courmayeur, dove pendono porzioni del ghiacciaio di Planpincieux, sono stati predisposti 11 scenari di possibili rischi da prevenire e da gestire, compresi quelli derivanti da versanti che restano improvvisamente senza ghiacci e diventano pareti instabili e franose. Ma la media delle temperature degli ultimi due decenni indica una sempre maggiore incompatibilità con la presenza di ghiacci sotto i 3.500 m.

(Foto: Unsplash)



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