Hossein Amir-Abdollahian è a Roma per incontrare Di Maio e il cardinale Parolin. Il suo successo è frutto del sodalizio con l’ex comandante della Forza Quds. Il suo obiettivo? Integrare la missione dell’unità nella politica estera del Paese cancellando l’eredità di Zarif. L’ayatollah è con lui
Hossein Amir-Abdollahian si è definito in passato un “soldato” di Qassem Soleimani, il generale ucciso all’inizio del 2020 da un drone statunitense, che era molto più che il comandante della Forza Quds, l’unità d’élite dei Pasdaran. Era l’architetto della cosiddetto Asse della resistenza. Era “un martire vivente della rivoluzione”, come lo definì già nel 2005 l’ayatollah Ali Khamenei. È stato l’uomo in grado di rendere la Forza Quds un ramo indipendente dei Pasdaran e di costruire in vent’anni, tramite essa, un’efficace ed efficiente rete di influenza regionale che si estende in Libano, Siria, Iraq e Yemen tramite organizzazioni dichiarate terroristiche da diversi Paesi occidentali come Hezbollah.
Amir-Abdollahian, arrivato ieri a Roma per incontrare l’omologo Luigi Di Maio e la diplomazia vaticana, è nato nel 1964 a Damghan, nella provincia settentrionale di Semnan, ma la sua famiglia si è trasferita nella capitale quando aveva 6 anni, dopo la morte del padre, vivendo in uno dei quartieri più poveri della città, a Sud dell’aeroporto internazionale di Mehrabad. Si descrive un uomo “del Sud”, definizione il più delle volte riservata alle famiglie che vivono nelle periferie povere di Teheran.
Si è arruolato nell’esercito combattendo nella guerra Iran-Iraq dal 1980 al 1988. Racconta che quell’esperienza lo ha portato a lavorare al desk Iraq del ministero degli Esteri tra il 1990 e il 1991, quando ha conseguito la laurea in relazioni internazionali presso la Scuola di Relazioni internazionali della diplomazia iraniana. Poi ha conseguito il master e il dottorato in Relazioni internazionali presso l’Università di Teheran. Nel 1997 è stato nominato vice-segretario dell’ambasciata iraniana in Iraq.
È proprio da diplomatico, esperto di affari arabi e africani, che ha costruito il suo rapporto con Soleimani. Ha raccontato che ogni volta che si recava in un Paese come inviato diplomatico o negoziatore, prima si consultava con lui per ottenere le indicazioni necessarie. Lo ha fatto anche nel 2007 quando era caponegoziatore nei colloqui diretti con gli Stati Uniti in Iraq. Ha trattato con funzionari della Cia e del Pentagono. Ma l’intera squadra iraniana era sotto la supervisione di Soleimani.
Nel 2011, grazie a questo legame, è stato nominato viceministro degli Esteri per gli Affari arabi e africani dall’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad. Nel 2013 è stato l’unico viceministro di quell’era a mantenere il suo incarico quando ministro diventa il riformista Mohammad Javad Zarif. Tre anni dopo, però, l’uscita di scena. C’è chi dice per le divergenze con Zarif, chi per le pressioni ricevute dal ministro dagli Stati Uniti, in particolare all’allora segretario di Stato John Kerry, chi ancora per la volontà del governo di Hassan Rouhani di punire Soleimani e i suoi al fine di indebolire la Forza Quds e ripristinare il ruolo della diplomazia iraniana.
L’anno scorso, pochi giorni dopo il suo insediamento, Foreign Policy ha scritto: “La prossimità di vedute tra Amir-Abdollahian e Soleimani significa che il primo probabilmente attribuirà grande importanza alla politica militare iraniana in Medio Oriente durante il suo mandato”. Poi la rivista statunitense ha sottolineato un particolare: la sua prima visita ufficiale da ministro degli Esteri iraniano è stata in Siria per incontrare il dittatore Bashar al-Assad e ribadire il sostegno dell’Iran al suo regime.
Lui ha promesso al parlamento di continuare nel solco di Soleimani. “In Medio Oriente stiamo cercando di consolidare i risultati del campo dell’Asse della resistenza”, ha detto durante l’audizione di conferma. Il primo segnale l’ha inviato all’insediamento del presidente Ebrahim Raisi, da responsabile del cerimoniale per gli ospiti internazionali. All’evento ha messo in prima fila i rappresentanti dei proxy sostenuti dall’Iran, come Hezbollah, Hamas e al-Hashd al-Shaabi. Dietro di loro Enrique Mora, vicesegretario generale della diplomazia dell’Unione europea.
Il suo approccio è in linea con quello del presidente Raisi anche per quanto riguarda lo “sguardo a Est”, con l’intento di approfondire le relazioni con la Cina e la Russia. È l’asse più importante della politica estera del nuovo governo, ha spiegato. Ha definito “storica” la firma dell’accordo di cooperazione venticinquennale con la Cina e ha rivendicato il suo ruolo nella stesura del documento.
Non ha molta esperienza sull’accordo nucleare, non essendo stato presente ai colloquio. È convinto, però, che “la diplomazia comprenda solo il linguaggio della forza” e che, per indurre gli Stati Uniti a revocare le sanzioni all’Iran, il Paese debba aumentare la propria influenza nei negoziati facendo avanzare il proprio programma nucleare. Come ricorda Foreign Policy, ha sostenuto la legge in base alla quale l’Iran ha ridotto drasticamente i suoi impegni nucleari e limitato pesantemente l’accesso dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica al suo programma nucleare.
Ora che è ministro degli Esteri, Amir-Abdollahian sarà in grado di integrare meglio la strategia della Forza Quds nell’approccio di politica estera del Paese, ha spiegato lo stesso giornale. Da Zarif ha ereditato il ministero reso dal predecessore il più importante nel governo di Teheran. I paragoni saranno inevitabili. Dalla sua ha un vantaggio: la fiducia dei Pasdaran e della Guida suprema. Privilegi, ha scritto sempre Foreign Policy, che “gli spianano la strada nella diplomazia” e che come risultato hanno il fatto che “il suo mandato potrebbe vedere un’espansione significativa del ruolo del ministero degli Esteri nella definizione della politica mediorientale dell’Iran”.