Intervista a Roberto Crippa, general manager di Technoprobe, che ha spiegato come si fa a costruire in Italia un campione tecnologico da 4,8 miliardi di euro di capitalizzazione, in grado di competere a livello globale (anzi, esiste solo un altro concorrente). La quotazione, il settore dei microchip, la formazione dei ragazzi (viva gli istituti tecnici) e le condizioni di lavoro: i suoi dipendenti lavoreranno un mese in meno mantenendo lo stesso stipendio
C’è una multinazionale olandese, Asml, che in un articolo sul New York Times è stata definita “la più importante azienda di cui non avete mai sentito parlare”, perché produce i macchinari che servono a creare i microchip di ultima generazione, su cui “girano” le nostre vite, dalle auto agli smartphone. In Italia abbiamo una società, Technoprobe, che può essere definita allo stesso modo: è una delle due al mondo in grado di produrre probe cards di altissimo livello.
Di che si tratta? Sono schede sonda che permettono di collaudare i chip durante il loro processo di costruzione, prima di inserirli negli apparecchi. Pensate a un’auto a guida autonoma di livello 2 – ovvero buona parte di quelle vendute oggi – che garantisce frenata di emergenza, controllo della velocità, o il mantenimento della corsia. Una casa automobilistica non potrà certo aspettare di avere i veicoli finiti e lucidati per capire se la tecnologia che attiva la frenata di emergenza funziona o meno.
Qui entrano in gioco le schede sonda: più il chip svolge una funzione delicata e più deve essere messo alla prova in tutte le condizioni di utilizzo e di temperatura. Una funzione chiave, svolta da una società con sede a Cernusco Lombardone, provincia di Lecco, dove Giuseppe Crippa ha creato un pezzo di Silicon Valley dopo aver vissuto in prima persona lo sviluppo tecnologico californiano dei primi anni ’60.
Tornato in Italia, e dopo una lunga esperienza nel settore dei semiconduttori, apre la sua società negli anni ’90. Oggi è guidata dall’amministratore delegato Stefano Felici e dai figli del fondatore, Cristiano e Roberto. Con Roberto, general manager, ho fatto un’interessante chiacchierata.
La vostra azienda si è quotata all’inizio di quest’anno, e da realtà quasi sconosciuta è diventata un piccolo gigante tecnologico da 4,8 miliardi di euro di capitalizzazione. Cosa vi ha spinto verso il mercato?
L’unico obiettivo era avere una leva in più nel campo delle fusioni e delle acquisizioni. Quando sei un’azienda privata ti sono precluse alcune operazioni, come l’acquisizione di una società quotata. Invece vogliamo crescere e stiamo parlando con diverse aziende per allargare il nostro perimetro.
Mai come oggi il settore dei chip è “caldo”. In queste ore il Senato degli Stati Uniti ha dato il via libera a un piano da 280 miliardi di dollari per sviluppare l’industria nazionale. L’Europa, il Giappone, la Cina, la Corea del Sud: tutti stanno predisponendo i cosiddetti Chips Act per incentivare il settore.
Ci siamo accorti di aver esagerato nella delocalizzazione verso l’Asia. L’Europa e gli Usa negli anni ’90 avevano il 50% del mercato, oggi siamo al 20. L’unica logica è stata quella della riduzione dei costi, ma oggi la paghiamo cara: abbiamo trasferito know how e informazioni privilegiate che il mondo asiatico ha imparato a sfruttare. I chip più evoluti sono fatti per il 95% da Tsmc a Taiwan. L’obiettivo che si sono dati i governi occidentali è tornare a un equilibrio 50/50 con l’Asia. Non sarà facile.
Non si rischia di drogare un mercato già maturo e ben funzionante con tutti questi incentivi pubblici?
Si stima che il mercato dei semiconduttori, che oggi vale circa 450 miliardi l’anno, raddoppierà da qui al 2030. Quindi ci sono ampi margini di crescita e di assorbimento di questi incentivi. Che non servono tanto a sovvenzionare la produzione – è un business già decisamente redditizio – quanto a invogliare le aziende a investire e costruire impianti in un Paese invece che in un altro.
In Europa, e in particolare in Italia, serve un Chips Act?
Per stare al passo con Usa e Asia, anche da noi è giusto immaginare un sostegno finanziario pubblico. Ma ciò di cui davvero hanno bisogno le aziende è un sistema burocratico snello, bassi costi di esercizio e la possibilità di trovare professionisti formati.
Molte aziende con cui parlo hanno questo problema: non trovano lavoratori con il giusto livello di preparazione tecnica. Anche per voi è così?
Quello della formazione è un tema gigantesco. Eppure noi siamo la dimostrazione che in Italia non solo si può creare una realtà ad alta specializzazione tecnologica, ma in grado di competere a livello globale. Nel nostro territorio avevamo 500 addetti nel 2020, oggi sono 1.500. E le nostre 11 sedi estere occupano 1.000 persone, alcune dedicate al rapporto con i clienti, altre che seguono una piccola parte della produzione “di prossimità”, per fornire un servizio migliore al cliente. Ma il cuore della nostra industria è in Italia, l’80% dei prodotti sono fatti qui. Dove ingegneri e tecnici sono di altissimo livello.
Eppure non bastano.
C’è un problema demografico e anche culturale. Technoprobe collabora con Confindustria e le Camere di commercio della zona e insieme a loro stiamo parlando con le scuole della provincia di Lecco. In zona ogni anno si iscrivono alle superiori 3.200 ragazzi. Di questi, solo un centinaio sceglie indirizzi tecnici. Non è un caso se Tesla o Intel scelgono di aprire impianti in Germania: pur avendo un tessuto economico più costoso, hanno più diplomati di istituti tecnici e ingegneri. Il futuro del nostro Paese si giocherà su questo: solo se hai personale qualificato le aziende investiranno, con o senza incentivi. Non servono tre lauree e due dottorati: basta anche un corso di tre o quattro anni dopo le scuole medie per iniziare una carriera da tecnico specializzato. Per poi continuare ad aggiornarsi e crescere sia nelle qualifiche che nei ruoli. Speriamo nella riforma degli istituti tecnici appena approvata, che faccia capire alle famiglie che non è un piano B rispetto ai licei, ma un piano A verso un futuro lavorativo garantito.
Certo, se uno non sa che in Italia abbiamo un campione globale nel settore delle probe cards…
Ci stiamo muovendo anche per farci conoscere di più: venerdì 7 ottobre organizzeremo una grande hiring date, chiunque può iscriversi e venire in sede a conoscere l’azienda, come lavoriamo, chi siamo. E lo stesso giorno può uscire da qui con una proposta di lavoro in mano.
Immaginiamo che il 7 ottobre troviate il dipendente giusto. Poi dovete anche tenervelo: dopo la pandemia, molti hanno ripensato le proprie vite, le priorità, l’equilibrio con la vita privata, le condizioni che fanno considerare un posto di lavoro desiderabile. Ora sono le aziende che, con piani di hybrid e remote working, benefit, premi di produzione, devono rendersi attraenti.
Abbiamo appena firmato un accordo con il sindacato che permette ai nostri dipendenti di lavorare un mese di meno all’anno mantenendo lo stesso stipendio. So che sembra una formula magica, ma l’evoluzione tecnologica permette di ridurre i costi aumentando la produzione. Così abbattiamo le ore lavorate pur avendo un output maggiore di prima. Abbiamo anche introdotto molta flessibilità: si può entrare a diversi orari, lavorare da casa quando si può, conciliare le esigenze della propria vita privata. Al di là dei soldi e della carriera, dobbiamo cercare di offrire un ambiente piacevole. E grazie alla crescita del nostro settore continuiamo ad assumere personale.
Oggi gli Usa hanno annunciato un secondo trimestre di contrazione economica. Qual è la vostra prospettiva per l’anno prossimo?
Dal nostro punto di vista, il settore sta andando bene, stiamo rispettando gli impegni con i nuovi azionisti in termini di risultati. L’anno prossimo potrebbe essere più complicato, ma noi abbiamo una “visibilità” che non va oltre qualche mese. Vendiamo un oggetto consumabile: le nostre interfacce sono diverse per ogni singolo tipo di chip. Non è un macchinario, un tornio, che ha un lungo ciclo di vita e che può risentire dei cicli economici. Per restare su un esempio meccanico, noi facciamo le punte delle frese dell’officina. Si consumano e vanno cambiate spesso. I nostri prodotti ogni anno diventano più complessi, come i semiconduttori che devono collaudare, e dunque più costosi. Anche in caso di calo di volumi, possiamo garantire buoni ricavi. Al momento non siamo particolarmente preoccupati.