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Oltre l’Afghanistan: Nato, politica estera e Oriente. Conversazione con Ettore Sequi

Il segretario generale della Farnesina conosce a fondo le questioni del Medio Oriente e dell’Asia. Non solo è stato ambasciatore in Afghanistan e inviato per l’Ue, ma l’anno scorso ha seguito dall’Unità di crisi il frettoloso e doloroso abbandono di Kabul da parte delle forze occidentali. Oggi insieme a lui allarghiamo lo sguardo su Golfo e Oriente, sul terrorismo internazionale, e sullo scontro tra modelli (democrazia vs. autocrazia) che “non porta a nulla di buono”

È passato un anno dalla precipitosa ritirata statunitense dall’Afghanistan. In quei giorni il nostro governo, attraverso la sua struttura diplomatica, ha lavorato senza sosta per far uscire da Kabul, assediata dai talebani, non sono gli italiani ma anche gli afghani che avevano collaborato con le forze occidentali. A capo di quella struttura, nell’ufficio dell’Unità di crisi della Farnesina, c’era Ettore Sequi, segretario generale del Ministero degli Esteri, che oggi parla con Formiche.net di quel momento drammatico, di cosa è successo da allora e delle prospettive per la regione. Sequi in Afghanistan è stato ambasciatore italiano nonché inviato speciale dell’Unione europea.

In una recente intervista sull’Atlantic, il consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, ha ammesso che in Afghanistan sono successe cose “orribili” dopo la ritirata statunitense, tuttavia ha spiegato che c’erano ragioni di interesse nazionale a giustificare la correttezza di quella decisione. Lasciare il Paese, per gli Stati Uniti e per gli alleati che lì erano impegnati come l’Italia, è stata una buona decisione? Che messaggio ha lasciato al mondo, analizzandolo adesso, a un anno dalla scelta? 

Il messaggio, purtroppo, non è positivo. Ma occorre comprenderne i motivi e la complessità. È vero che le forze occidentali si sono ritirate dall’Afghanistan in maniera concertata, sulla base di determinazioni assunte di comune accordo in ambito Nato. Ed è vero che il nostro impegno e la nostra presenza si sono basati, sin dall’inizio, sulla solidarietà nei confronti dell’Alleanza Atlantica.

Quando gli Stati Uniti hanno deciso di lasciare il Paese – decisione presa dall’Amministrazione Trump ma in seguito condivisa e nei fatti attuata dall’Amministrazione Biden – gli Alleati, tra cui l’Italia, non potevano che fare altrettanto. La verità è che la nostra presenza in Afghanistan è stata affetta da due virus e si è confrontata con alcuni paradossi.

Il primo virus: la frustrazione di molti afghani che dopo aver nutrito grandi – e forse irrealistiche – speranze di un rapido futuro di prosperità e pace, non hanno percepito miglioramenti concreti (che pure vi sono stati) della loro vita quotidiana.

Il secondo: la fatica, o stanchezza, della comunità internazionale a causa della lentezza della ricostruzione, sia economica che istituzionale e dei gravi problemi irrisolti: dalla droga alla criminalità, dalle azioni offensive dei talebani alla corruzione e all’insicurezza. Non abbiamo trovato un vaccino.

E i paradossi?

Il primo è quello che definisco “paradosso dell’orologio”. Da parte occidentale si sono periodicamente fissate date per il ritiro dall’Afghanistan, poi di volta in volta rimandate, nella consapevolezza della precarietà delle condizioni sul terreno e della impreparazione delle forze di sicurezza locali. I successivi rinvii e la sostanziale inefficienza della polizia e delle forze armate afghane sono stati un involontario messaggio di conferma del mantra dell’insorgenza: “voi stranieri avete l’orologio. Noi talebani abbiamo il tempo”.

Questa situazione è stata vissuta con grande preoccupazione da molti afghani. Essi soffrivano  ancora di una sorta di “sindrome dell’abbandono”, memori dell’improvvisa cessazione del sostegno internazionale dopo il ritiro dei sovietici dal paese.

Le agende afghana e internazionale erano calibrate secondo orologi che scandiscono il tempo in maniera diversa: le opinioni pubbliche occidentali secondo i tempi della stanchezza per una missione lunga, sanguinosa e dispendiosa; il governo afghano  secondo tempi più locali, meno incalzanti, culturalmente diversi dai nostri. Come culturalmente diversi erano concetti quali democrazia parlamentare, lotta alla corruzione, buon governo, trasparenza e accountability dell’Amministrazione, non sempre percepiti allo stesso modo in Occidente o in Afghanistan.

Poi c’è il “paradosso militare”. Premetto che i militari italiani hanno fatto un lavoro straordinario, di cui tutti dobbiamo andare fieri e sono stati spesso additati a modello dalla stessa stampa anglosassone. Tuttavia è stata prevalente la componente securitaria, piuttosto che quella di Institution Building. E anche quella di “sviluppo” non è stata sufficientemente efficace. Non era solo necessario “conquistare i cuori e le menti”, ma anche lo “stomaco” della popolazione. Molti giovani afghani – la cosiddetta manodopera talebana – in assenza di alternative economiche si sono uniti all’insorgenza.

Vi è poi – ed è a mio avviso decisiva –  la dimensione istituzionale della sicurezza, rappresentata dalla capacità o meno dello Stato di essere presente a livello locale come erogatore di servizi essenziali che vanno dalla giustizia alla polizia, dalla pubblica amministrazione al buon governo. Questa è stata la sfida più difficile ed è quella che abbiamo perso. Quando, nella mia funzione prima di Ambasciatore italiano e successivamente di rappresentante speciale dell’Unione europea per l’Afghanistan e Pakistan, cercavo di spiegare l’importanza di poter offrire servizi di base alla popolazione, citavo sempre una frase del generale Dalla Chiesa: la mafia si sviluppa dove lo Stato non è in grado di erogare servizi essenziali, come ad es. la giustizia, l’istruzione o il lavoro.

Sostituiamo alla parola mafia la parola talebani e abbiamo il risultato di quanto è accaduto in Afghanistan. La stessa amministrazione della giustizia, completamente inefficiente, insufficiente e corrotta , ha trovato un terreno estremamente fertile da parte dei talebani che arrivavano nei villaggi, decidevano, in base alla Sharia, sulle cause e sui contenziosi, spesso relativi a delimitazione di proprietà ed eseguivano la sentenza. In questo modo davano il senso di un controllo parallelo del territorio da parte di un “anti stato”. L’appoggio che l’insorgenza ha avuto in numerose aree del paese è dovuto non al fatto che i talebani fossero popolari, ma piuttosto all’esasperazione della popolazione per l’assenza di giustizia e buon governo e per la presenza di amministratori pubblici corrotti.

Tutto ciò si inserisce in un quadro già complicato di per sé.  Una notazione più generale: dopo gli accordi di Doha del 2020 esisteva già una percezione generalizzata che le istituzioni afghane probabilmente non avrebbero retto all’impatto con i talebani.

Quindi un bilancio negativo?

Certo, la crisi seguita al ritiro dall’Afghanistan deve stimolare una riflessione su modalità, obiettivi e strumenti con cui la Comunità internazionale può intervenire nelle aree di crisi. Tra le lezioni da trarre c’è sicuramente la conferma che l’Afghanistan presenta complessità – politiche, sociali ed economiche – non comuni, e che per affrontarle gli strumenti della cooperazione internazionale, così come li abbiamo conosciuti in questi ultimi due decenni, hanno forse dimostrato una capacità d’incidere limitata.

Ciò detto, i progressi conseguiti in Afghanistan in vent’anni di presenza occidentale ci sono stati. Ed è significativo il contributo dell’Italia, che ha consentito di raggiungere indubbi risultati, anche a costo della vita di 53 militari e 2 civili, a cui va sempre il nostro pensiero e la nostra riconoscenza. Importanti riforme sono state introdotte nel settore della giustizia e abbiamo contribuito allo sviluppo delle infrastrutture, di ospedali e di sistemi idrici. La mortalità infantile in Afghanistan si è più che dimezzata, il tasso di alfabetizzazione dei giovani è aumentato così come il tasso di iscrizione femminile alla scuola primaria. In venti anni, abbiamo contribuito a formare una generazione con una visione della società basata su valori universali, diritti e libertà fondamentali.

Oggi, a un anno di distanza dalla crisi afghana, le notizie che giungono dall’Afghanistan sono però negative.

Per evitare che tutto ciò che è stato raggiunto sia messo in discussione, occorre mantenere alta l’attenzione sul Paese. Non possiamo abbandonare il popolo afghano: è una nostra responsabilità morale prima ancora che un dovere politico. Serve fermezza, e l’impegno dell’Italia in tal senso è massimo. Assieme ai nostri alleati, esercitiamo mirate pressioni sulla dirigenza de facto afghana, che però finora ha conseguito risultati a dir poco insufficienti in termini di inclusione, pluralismo e promozione dei diritti umani. In parallelo, assicuriamo il migliore sostegno possibile a quella popolazione.

Di sicuro, vedere le donne afghane sfilare in strada a Kabul per affermare i propri diritti, anche a costo della propria incolumità personale, dimostra che alcuni dei semi piantati in questi anni sono germogliati e, soprattutto, vanno protetti e difesi.

Pochi giorni fa, un raid aereo statunitense ha ucciso il leader qaedista Ayman al Zawahiri a Kabul. Al di là del mistero sulla continuazione delle relazioni tra al Qaeda e i Talebani, l’operazione è sembrata una riaffermazione delle capacità operative statunitensi, dopo che il ritiro afghano aveva riempito i giornali e lasciato perplessità tra alcuni partner occidentali nella regione mediorientale.

E invece ci sono diversi segnali che, sebbene disimpegnati da attività combat, gli Stati Uniti resteranno un attore presente e centrale nel Medio Oriente, anche in competizione con le altre grandi potenze – la Cina su tutti, come dimostrato anche nel recente viaggio mediorientale di Joe Biden (che potrebbe essere seguito da una visita a Riad del leader cinese Xi Jinping). Quali sono gli interessi strategici e le dinamiche che si snodano nella regione, e come queste toccano l’interesse nazionale italiano in una delle fasce di proiezione internazionale di Roma?

Più che una riaffermazione delle capacità operative statunitensi, su cui nessuno di noi credo avesse mai nutrito dubbi, l’eliminazione di Al Zawahiri è la conferma che Washington non intende deflettere dalla lotta al terrorismo. Nemmeno in Afghanistan. La presenza del leader di Al Qaeda a Kabul ha rappresentato una grave violazione degli accordi di Doha e dell’impegno ribadito dai talebani successivamente al 15 agosto scorso con la Comunità internazionale che non avrebbero dato ospitalità ai terroristi o permesso che l’Afghanistan venisse utilizzato per minacciare altri Paesi.

E’ una violazione che Washington attribuisce se non a tutta, almeno a una parte della leadership dei talebani, nella consapevolezza che non siamo di fronte a un’entità monolitica ma a una compagine frastagliata al suo interno. È infatti possibile che all’uccisione di Al Zawahiri possano non essere estranee anche le  rivalità, se non lotte di potere, tra il  gruppo Haqqani e la componente dei talebani di Kandahar.

La recente visita del Presidente Biden a Gedda e i suoi incontri coi sauditi e coi leader della regione è certamente indice della volontà di riaffermare l’interesse per l’area dopo una fase percepita da molti Paesi sunniti come disimpegno. La missione segna poi il rilancio delle relazioni con l’Arabia Saudita, ma credo vada anche letta alla luce della guerra in Ucraina, come un tentativo di avvicinare alle sensibilità dell’Occidente Paesi che rispetto al conflitto hanno fatto mostra sinora di una certa ambivalenza.

Certamente, il Medio Oriente è un’area di interessi strategici, per l’Italia, per l’Europa e naturalmente per tutti gli attori globali. Sono interessi che attengono alla sicurezza e alla stabilità dell’area, ma le cui ripercussioni sono sentite da tutta la Comunità internazionale. Tali interessi toccano questioni essenziali come l’acceso ai mercati e alle materie prime e a risorse essenziali, la diffusione dell’innovazione tecnologica, le rotte commerciali e logistiche lungo la direttrice chiave est-ovest.

Sotto tutti questi profili, il Medio Oriente, che è a pieno titolo parte di quel Mediterraneo allargato, perno geopolitico della nostra politica estera, è per noi essenziale. Tanto più in questo frangente in cui la guerra in Ucraina ha messo in discussione consolidate relazioni commerciali e modelli di approvvigionamento energetico.

Esso rappresenta un mercato prioritario per le nostre esportazioni. È importantissimo quale destinazione dei nostri investimenti esteri, con centinaia di imprese italiane che vi operano, ma anche quale fonte di investimenti esteri diretti in Italia. È un’area che offre immense opportunità in una fase di diversificazione economica: questi Paesi hanno il potenziale di investire ingenti risorse in settori fortemente appetibili per le nostre imprese. Penso alla transizione ecologica e digitale, all’idrogeno blu, al turismo e alla cultura.

La stabilità dell’area è funzionale anche a un’efficace lotta al terrorismo – che, a prescindere dalla vicenda Zawahiri, non è una minaccia affatto superata – così come è funzionale alla lotta ai traffici di varia natura, a partire da quelli di esseri umani, droga e beni archeologici.

Essa passa attraverso tanti fattori: una composizione della questione nucleare iraniana, per il tramite del rilancio del Jcpoa; evitando un ulteriore antagonismo tra Israele e Paesi sunniti e l’Iran; una composizione del conflitto in Yemen, rispetto alla quale nutriamo oggi maggiori speranze, della crisi in Siria e della gravissima situazione in Libano.

Il nostro Paese ha un ruolo da esercitare e che già esercita, non limitandosi a essere un partner commerciale. L’Italia si è costruita il ruolo di partner politico credibile, grazie al fatto – evidentemente riconosciutole dagli stessi attori dell’area – di non avere agende nascoste, di mantenere posizioni moderate ed equilibrate, di favorire il dialogo.  A ciò si arriva attraverso l’ascolto dei partner e il dialogo con loro, cosa che non tutti hanno la volontà e la capacità di fare.

L’impegno per la stabilizzazione dell’area e per il superamento delle crisi si declina a partire dal nostro ruolo di primo piano in Libia. Senza fare troppo rumore, in maniera discreta ma efficace e costante, siamo impegnati favorire il dialogo, la mediazione, la stabilità  e la composizione dei conflitti fra attori internazionali e regionali i cui contrasti si consumano nell’area.

A pochi giorni dal ritiro dall’Afghanistan, a inizio settembre 2021, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si era recato in visita in Uzbekistan, Tagikistan, Qatar e Pakistan. Su Formiche.net raccontammo quel tour diplomatico come una dimostrazione dell’Italia di voler trattare la questione Afghanistan/Talebani a livello internazionale, ponendo attenzione al quadro regionale.

L’Asia Centrale è una regione che sta attirando magnetizzando diversi interessi per potenzialità e ruolo geopolitico. Vi si muovono gli attori europei, gli Stati Uniti, ma anche Russia, Cina, Turchia e Iran. Potremmo probabilmente dire che è uno dei territori dello scontro tra modelli, quello democratico e quello autocratico, che segnano gli affari globali. Anche alla luce del modello che l’Occidente ha lasciato come ricordo dopo l’impegno afghano, qual è la sfida in corso, nell’area come altrove?

La crisi afghana è un tassello del più generale mosaico asiatico. In questo quadro complesso si sono innestati e si innestano tuttora i tentativi di influenza delle potenze regionali e dei Paesi limitrofi – la seconda dimensione da considerare. Attorno all’Afghanistan agiscono Stati che, con forme, intensità e modalità differenti, cercano di influenzarne la società, la politica, l’economia e la sicurezza, venendone a loro volta influenzati. Proprio la cronica debolezza delle istituzioni afghane e l’estrema frammentazione del potere al suo interno incentivano queste dinamiche. C’è poi da considerare il tema della solidarietà etnica tra gruppi omogenei, ma separati da un confine, come per i tagiki o gli stessi pasthun in Pakistan, o ancora le minoranze sciite al confine con l’Iran.

​Da un lato, vari attori regionali sono interessati a conseguire un controllo sull’Afghanistan o parte del suo territorio per alterare gli equilibri in Asia Centrale a proprio vantaggio, o impedire agli avversari di farlo. ​Dall’altro, le diverse fazioni afghane possono essere tentate di ricorrere al sostegno di sponsor esterni, siano essi Stati o organizzazioni terroristiche transnazionali, per poter accedere a risorse fondamentali per garantirsi la sopravvivenza o accrescere le proprie chance di successo in conflitti interni.

​Si tratta di una miscela molto rischiosa, al pari del valore geopolitico dell’Afghanistan, che è crocevia tra Medio ed Estremo Oriente, sub-continente indiano, Europa. Di qui l’importanza di stimolare iniziative inclusive, a cominciare dal G20, facendo leva sulla sussistenza di un tangibile interesse condiviso della comunità internazionale alla stabilità del Paese e dell’area. ​

Vi sono serie potenziali minacce a carattere transnazionale che potrebbero scaturire dal nuovo scenario afghano: una recrudescenza del fenomeno terroristico organizzato; un flusso di rifugiati, migranti e richiedenti asilo; un’impennata nella coltivazione dell’oppio e nel traffico di oppiacei. Su tutto incombe una massiccia emergenza umanitaria per la popolazione locale, già esposta alle conseguenze della siccità e a gravi carenze di approvvigionamenti alimentari e assistenza sanitaria. Con questi temi cruciali deve confrontarsi l’agenda internazionale per l’Afghanistan.

Detto questo, Parlare di scontro tra modelli è un approccio che non appartiene alla Farnesina e che ha dimostrato di non portare a nulla di positivo, come anche gli effetti del conflitto ucraino nella regione – con gli attori centro asiatici impegnati in un complesso esercizio di equilibrismo politico – concorrono a confermare. Per costruire occorre guardare a ciò che unisce e non a ciò che crea distanze.

Al di là di queste considerazioni, che sono i principi ispiratori della diplomazia italiana, in Afghanistan tutti i principali attori internazionali finiscono per trovarsi d’accordo sulle priorità da perseguire, al di là dei differenti approcci e dei toni a cui si fa ricorso nelle prese di posizione. E questo è senz’altro positivo perché agevola il perseguimento degli obiettivi attraverso un’azione coordinata. Tutti riteniamo sia essenziale una efficace lotta al terrorismo; che non vi sia un tracollo socio-economico del Paese, ciò al fine di evitare una nuova catastrofe umanitaria; che il Paese raggiunga quanto meno minimi standard di sicurezza, ad esempio per evitare incontrollati traffici di sostanze stupefacenti; che vengano garantiti almeno i basilari diritti umani, a partire da quelli di donne ragazze e gruppi etnici, che non possono essere marginalizzati dalla società afghana.

Lo scorso anno l’azione dell’Italia, anche grazie alla presidenza annuale del G20, si è fortemente incentrata sullo sforzo di estendere al più ampio livello di coordinamento internazionale possibile la discussione sulla crisi afghana e il confronto su una strategia per affrontarla. Il viaggio del Ministro Di Maio che lei ha ricordato è stato volto a riconoscere e stimolare il ruolo dei Paesi della regione centroasiatica rispetto alla crisi afghana, paesi interessati in prima battuta dagli effetti della caduta di Kabul – basti pensare ai flussi di rifugiati afghani verso il Pakistan. E al contempo Paesi senza il cui impegno coordinato, non potrà mai raggiungersi l’obiettivo di un Afghanistan stabile, proprio perché anche Kabul necessita di integrazione nella regione, sia a livello economico, sia a livello infrastrutturale.

La missione del Ministro ha contribuito ad aprire un canale di dialogo ulteriore, un nuovo filone che ha responsabilizzato i Paesi dell’area e che ha condotto, meno di un mese fa, all’importante conferenza di Tashkent che ha avuto come temi principali appunto la sicurezza e la situazione economica e umanitaria dell’Afghanistan. Vi hanno partecipato gli attori regionali e gli stati limitrofi, le principali organizzazioni internazionali, gli Usa e i paesi europei, fra cui l’Italia, e anche una rappresentanza delle autorità di fatto afghane.

La conferenza ha confermato quella sostanziale unità di vedute della Comunità internazionale sulle priorità da perseguire e sulle aspettative verso le condizioni di vita della popolazione afghana e gli sviluppi della situazione nel Paese.

E questo è senz’altro un buon punto di partenza.

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