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Un by-pass per le grandi infrastrutture. La proposta dell’avv. Giustiniani

Il Modello Genova potrebbe essere replicato sulle infrastrutture strategicamente essenziali allo sviluppo del Sistema Paese e delle quali si parla – in alcuni casi – sin dalla Legge Obiettivo del 2001. L’analisi di Marco Giustiniani, partner e responsabile del Dipartimento di diritto amministrativo dello Studio Legale Pavia e Ansaldo

L’autunno che abbiamo alle porte sarà una delle stagioni più calde nel settore delle opere e delle infrastrutture pubbliche; e le elevate temperature che saranno registrate si dovranno non alle propaggini dell’estate più afosa degli ultimi cento anni, ma a una combinazione di eventi pressoché unica e presumibilmente di difficile ripetibilità.

In primo luogo, la spinta degli investimenti pubblici discendenti dall’elevato numero di risorse messe a disposizione del nostro Paese dal Recovery Plan. In secondo luogo, il processo di riforma sostanziale del vigente Codice dei contratti pubblici avviato sulla base della Legge delega n. 78/2022 attualmente in gestazione presso una apposita commissione guidata dal Consiglio di Stato e che dovrà di necessità concludersi nei prossimi quattro mesi. In terzo luogo, una inedita campagna elettorale estiva che porrà subito il nuovo governo di fronte alla approvazione di una manovra finanziaria di fine anno che dovrà far fronte alla più grave crisi energetica dagli Anni Settanta del Secolo scorso e che rischia di bloccare la ripresa economica.

Ma andiamo con ordine.

È oramai acquisito a fattor comune (anche se emerge con la dovuta rilevanza solo in alcuni dei programmi elettorali stilati dalle diverse forze politiche) che uno dei maggiori problemi della rallentata crescita dell’Italia negli ultimi trent’anni sia rappresentato dal deficit infrastrutturale e dai tempi troppo dilatati per la realizzazione di opere pubbliche cardinali.

Tale stato patologico che oggi sta attraversando una delle sue fasi acute è, tuttavia, il frutto di una cronicizzazione dovuta a due principali fattori, tra loro in parte connessi:

  1. l’incertezza, magmaticità e comunque la pesantezza dell’architettura legislativa sugli appalti pubblici, con la conseguente “paura della firma” dei funzionari amministrativi;
  2. l’eccessiva burocratizzazione del sistema.

Non menziono, invece, il fattore c.d. corruttivo (o turbativo) in quanto la sua incidenza è percentualmente prevalente nelle commesse di piccole e medie dimensioni, anziché nelle procedure di aggiudicazione e realizzazione delle grandi opere; e ciò in quanto le prime hanno più facilità a transitare in modo meno evidente dinanzi all’occhio mediatico.

Per spiegare il primo fattore può essere utile mutuare l’azzeccata sintesi fornita qualche anno fa da una delle più note giudici del Consiglio di Stato: in Europa si interviene legislativamente sugli appalti pubblici una volta ogni dieci anni, in Italia dieci volte in un anno.

È ben vero che gli appalti pubblici siano un settore oggettivamente complesso per i molteplici interessi ed esigenze che abbraccia; ma ciò non significa che il legislatore lo debba utilizzare come banco di prova in un tentativo costante di trovare la c.d. “norma perfetta” – mediante ripetuti interventi correttivi – per la regolazione di tali esigenze e interessi.

Infatti, i continui emendamenti e modifiche della regolazione settoriale (il più delle volte di natura chirurgica e privi di una visione di insieme) generano incertezza applicativa negli operatori privati, ma soprattutto nelle amministrazioni. E ciò anche nella semplice individuazione delle norme applicabili alla singola gara. Si rammenti, del resto, che nella maggior parte dei casi una procedura di affidamento di un contratto pubblico trova la propria disciplina applicabile in quella vigente alla data di pubblicazione del relativo bando, a prescindere da quante settimane, mesi o anni impieghi la stazione appaltante a concludere la gara e dalle eventuali modifiche normative verificatesi in corso.

A ciò si aggiunga che – in epoca ancora non sospetta (ossia prima che la crisi pandemica del 2020 facesse entrare l’Italia in una nuova fase acuta della patologia da carenza infrastrutturale) – l’allora presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, aveva già “bacchettato” il legislatore sul punto. In occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2018, era stato infatti sostenuto che “la politica non riesce a compiere in modo autorevole e significativo quel bilanciamento dei valori che costituisce la missione sua propria. Il problema si trasferisce, allora, dalla politica al diritto e alla legge, e la crisi della politica diviene crisi del diritto e della legge. Questa, infatti, che dovrebbe costituire l’atto di indirizzo politico per eccellenza, diventa sempre più incerta e sempre meno capace di regolare. Il proliferare di leggi che spesso intervengono sulla stessa materia provoca una diminuzione della loro chiarezza e della loro capacità precettiva e regolatoria”.

Il corollario dell’instabilità di una disciplina in costante evoluzione (o involuzione) è stato rendere il procedimento di aggiudicazione di un contratto pubblico e di realizzazione della relativa opera pubblica una sorta di percorso a ostacoli, con conseguente incremento del timore di assunzioni di responsabilità da parte dei responsabili dei relativi procedimenti (la c.d. paura della firma); nonché rischio di formazione di sacche di inefficienza amministrativa, terreno – questo, sì – fertile per la proliferazione di comportamenti illegali.

Per quanto concerne il secondo fattore (la burocratizzazione del sistema), questo è – in parte – la risultanza di una normativa stratificata e complessa come quella appena descritta; e – in parte – frutto di un problema che non riguarda il solo sistema degli appalti pubblici, ma il Sistema Italia nel suo complesso. In altri termini, l’eccessiva lunghezza della filiera burocratica che congiunge la formulazione dell’idea di (ossia l’individuazione dell’interesse pubblico a) realizzare una determinata opera o infrastruttura, la sua progettazione, la sua approvazione, l’individuazione del soggetto realizzatore e la sua finale inaugurazione, è – per un verso – dovuta a una normativa che prevede troppe sovrastrutture amministrative; ma – per un altro verso – all’esistenza stessa nell’apparato amministrativo italiano di troppe sovrastrutture.

Se questo è il quadro (invero un po’ demoralizzante) qual è l’occasione che si presenta nell’autunno che abbiamo alle porte? Trasformare l’emergenza in occasione, e le conseguenze della catastrofe pandemica, della guerra Russo-Ucraina e della crisi economica ed energetica che ne sono conseguite in un elettroshock per il settore degli appalti pubblici, sia sotto il profilo legislativo, sia sotto quello operativo tout court.

Non pretendendo di avere soluzioni definitive a problemi quali quelli descritti, ci si limita a una presa d’atto e a delle risultanti considerazioni.

L’esempio o (come è stato unanimemente definito) il “modello” più recente di un evento catastrofico dal quale si è stati capaci di generare un circolo virtuoso nella realizzazione di una infrastruttura cardinale per un intero quadrante geografico del nostro Paese è stato quello di Genova, a seguito del crollo del Ponte Morandi. Un modello, un approccio operativo, di alleanza tra politica, amministrazioni e imprese capace di by-passare la burocrazia, riducendone drasticamente la filiera, e di arrivare in soli due anni all’inaugurazione del nuovo Ponte San Giorgio.

Il Modello Genova potrebbe (invero dovrebbe) essere replicato sulle infrastrutture strategicamente essenziali allo sviluppo del Sistema Paese e delle quali si parla – in alcuni casi – sin dalla Legge Obiettivo del 2001.

Quando si tratta di un Modello, le sue repliche non devono necessariamente essere pedisseque: è l’approccio al problema per giungere alla sua soluzione che deve essere oggetto di replica. L’approccio è, dunque, quello di innestare nel Sistema, in via straordinaria, un by-pass che consenta di accorciare l’iter burocratico da seguire per la realizzazione di specifiche infrastrutture. A titolo esemplificativo, attraverso l’unificazione (a tempi contingentati) dei distinti procedimenti amministrativi per l’autorizzazione della singola opera da muovere di pari passo alla sua progettazione (e ciò anche sotto il profilo ambientale); la previsione di un’unica tipologia di procedura di affidamento che di regola unisca sia la fase progettuale che quella esecutiva; una maggiore fluidità delle procedure di collaudo.

Alcuni passi in questa direzione sono stati già compiuti con i Decreti Semplificazione 2020 e 2021 e con i successivi interventi normativi di quest’anno collegati alla realizzazione degli obiettivi fissati nel Pnrr. Ma il vero banco di prova di finale – da cui si comprenderà se il legislatore abbia davvero fatto tesoro dell’esperienza degli ultimi trent’anni – sarà il decreto legislativo che attuerà la delega per l’integrale riforma del sistema italiano degli appalti pubblici.

Dopo il trattamento di una fase acuta di una patologia cronica, non si può infatti lasciare il paziente indifeso ed esposto al riacutizzarsi della malattia. In occasione dell’approvazione del decreto di riforma non si potrà, dunque, non cercare di rendere il più possibile ordinari gli interventi straordinariamente introdotti per colmare in via d’urgenza il gap infrastrutturale. E ciò, quantomeno, attraverso: (i) una netta riduzione delle tipologie di procedure di aggiudicazione dei contratti – ad oggi oltre dieci – che rendono complesso anche il solo studio e la conoscenza approfondita delle stesse; (ii) la preferenza, ove possibile, dell’aggiudicazione congiunta della progettazione e dei lavori, con conseguente riduzione delle tempistiche di affidamento evitando la duplicazione delle gare; (iii) la concentrazione delle procedure autorizzative delle opere.

A tali interventi dovrebbe auspicabilmente aggiungersi un impegno, non scritto e non di certo formalizzabile in alcun modo, a intervenire legislativamente nel settore il meno possibile, interrompendo la ricerca, la tensione, verso la “norma perfetta”, garantendo così la stabilità nel tempo dell’intero apparato normativo. In effetti, una norma può anche non essere in sé una “buona norma”, ma qualora sia in grado di divenire una “norma stabile” potrebbe riuscire lo stesso a sedimentare quelle prassi fisiologiche standard (che tanto danno sicurezza alle amministrazioni e agli operatori del settore), e un conseguente “circolo applicativo virtuoso” che solo un quadro positivo stabile e saldo nel tempo può garantire; così divenendo per ciò stesso una “norma buona”.

Questa è l’occasione, la sfida, che il governo che si insedierà in autunno avrà di fronte: aprire la nuova Legislatura azionando una delle maggiori leve per far ripartire l’economia, approntando gli strumenti per colmare il gap infrastrutturale del nostro Paese e per evitare che quel deficit si ricostituisca in futuro.

Del resto, se all’inizio degli Anni Sessanta del Secolo scorso i nostri nonni e i nostri padri sono riusciti in soli otto anni a realizzare i 755 chilometri della più importante autostrada italiana, siamo veramente disposti a perdere con loro questa sfida non lasciando ai nostri figli e ai nostri nipoti le infrastrutture di cui avranno bisogno per vivere l’Italia dei prossimi sessant’anni?

In questo caso, nulla suona di più vero della nota affermazione manzoniana: “Ai posteri l’ardua sentenza”.

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